Simona Bordone: Come nasce il lavoro che esponi al Padiglione Abanese?
Driant Zeneli: Partirei da qui: con la tecnologia si fallisce sempre! Questo progetto è l’ultima tappa di una trilogia che nasce nel 2015 “Beneath the surface there is just another surface”.
Mi sembra che nel lavoro ci sia una dimensione emotiva che è stata poco detta. Come hai conosciuto i ragazzini protagonisti del video?
Quando nel 2015 stavo lavorando al primo video della trilogia un amico mi dice che vorrebbe scappare dalla terra. Gli ho dedicato un film, It would not be possible to leave planet Earth unless gravity existed (2017).
Il titolo di questo lavoro però sembra quasi una presa in giro di questo desiderio di fuggire dalla terra…
(Sorride)
Mentre lavoravo con lui in un ex area industriale ho incontrato padre e figlia che raccoglievano scorie di ferro-cromo. Mi parlano di un libro di fantascienza e con loro realizzo un’opera molto complessa, la seconda della trilogia. Inizio a leggere il libro, poi chiedo a un geologo di spiegarmi la storia del ferro-cromo e mi dice che arriva da Bulqizë, un villaggio nella parte nord-orientale dell’Albania.
Così decido di andarci con un geologo e un ingegnere che aveva lavorato lì e un autista, senza conoscere nessuno. Quando arriviamo la gente si chiede chi siamo: “dei ‘boss’ che vogliono acquistare il ferro-cromo e fare i soldi” oppure “dei giornalisti che racconteranno sempre la stessa storia” (quella dello sfruttamento dei minatori (n.d.r.)”. Ho spiegato loro che sono un artista e che avrei fatto il padiglione albanese per la Biennale di Venezia e che al momento avevo solo il titolo: Maybe the cosmos is not so extraordinary.
Stando nel paese ho conosciuto i figli e nipoti dell’albergatore. Due dei ragazzi li ho incontrati in un ristorante: uno era il giovanissimo cameriere di 11 anni, e sua sorella. Ho chiesto loro se gli piacevano i film e li ho ingaggiati insieme ad altri tre, tanti quanti sono i personaggi del libro di Aryon Hisenbegas, Sulla via per l’Epsilon Eridani. Intanto disegno, ho fatto tantissimi disegni mentre leggevo il libro.
Insieme a questi ragazzi è nata l’opera. Gli oggetti di scena, la sfera e il carro li ha fatti il mio amico Mario, con cui avevo fatto il primo film della trilogia; le voci sono quelle di Bujar e Flora, il padre e figlia del lavoro precedente. È un lavoro a venti mani.
Per me il lavoro è più simile al modo in cui giocano i bambini: quando un bambino gioca usa quel che sa della realtà ma lo fa con fantasia
Spiegami meglio il tuo processo di lavoro.
Non mi ritengo un artista progettuale, anzi a volte trovo la ricerca piuttosto noiosa. Di solito mi butto su una cosa poi la curiosità mi porta a scoprirne altre, a conoscere delle persone, così nasce una mia opera. Nel 2015 non immaginavo questa conclusione, né tanto meno che sarei arrivato alla Biennale, il lavoro è nato piuttosto da una necessità.
Questa della fantascienza però è una scusa, una scusa politica?
C’è un’idea romantica intorno ai discorsi sullo spazio, alle navicelle spaziali, in realtà tutto quello che c’è oggi nello spazio sono armi da guerra progettate per controllare tutto. Anche i droni sono armi da guerra. Ho inserito un drone nel film come se fosse un giocattolo per stupire i ragazzi ma è e resta uno strumento di controllo. Nelle mie opere ho sempre usato la cosmologia, da quando cerco di attraversare il sole o di buttarmi a toccare la luna.
Quindi il cosmo per te è una dimensione naturale ma extraterrestre?
La metafora del cosmo mi permette di parlare della distanza che si crea fra gli esseri umani, quella che creiamo noi. La tecnologia non mi interessa, è soltanto una delle cose create dall’uomo, mi interessa la distanza che la tecnologia crea tra gli esseri umani. L’arte deve esprimere un pensiero e in quanto tale è politica ma non mi considero un artista “socialmente impegnato”.
Mi sento impegnato nella vita quotidiana, credo che dalla conoscenza delle persone vicine, quelle che incontri al bar o sul pianerottolo, nascano le storie. I miei lavori originano da incontri casuali. Per me il lavoro è più simile al modo in cui giocano i bambini: quando un bambino gioca usa quel che sa della realtà ma lo fa con fantasia. Ho fatto lo stesso mettendo insieme i bambini, la fantascienza, il minerale, il luogo. È questo il mio modo di inventare storie.
Nel film si parla, anche se in modo indiretto, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di macchine che non funzionano bene: non vanno distrutte ma profondamente cambiate.
Quest’opera è dedicata a chi ogni giorno si sveglia e va lavorare e torna a casa e spera in qualcosa di più.
Sembra un discorso da socialista…
No, sono una persona che crede nel lavoro degli altri. Non mi sono mai definito né democratico né socialista. Vengo da un Paese dove socialismo e comunismo sono stati mal interpretati, e hanno fatto danni tremendi. Semplicemente credo nelle persone che sognano ancora.
Come è stato finanziato il padiglione, tutto dal Ministero della Cultura albanese?
Il ministero ha finanziato il film e buona parte del lavoro ma non è stato sufficiente. Perciò devo ringraziare Ida Pisani per aver organizzato il fundraising e tutti gli amici che mi hanno sostenuto.
Alla Biennale interessa la partecipazione di tanti Paesi, inclusi quelli con situazioni di disagio. Però molti hanno economie molto fragili, o semplicemente piccole ma i costi sono uguali per tutti a Venezia, è una macchina economica che non guarda in faccia a nessuno. Non sto parlando delle persone della Biennale che sono state stupende, ma se diciamo che vogliamo fare qualcosa per rendere il mondo migliore credo che qualcosa debba cambiare anche su questo.
- Padiglione:
- Albania
- Artista:
- Driant Zeneli
- A cura di:
- Alicia Knock
- Evento:
- 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia
- Dove:
- Arsenale, Venezia
- Date di apertura:
- 11 maggio - 24 novembre 2019