Discutere di un eventuale scopo dell’arte è tema complesso e insormontabile in questa sede, ciononostante bisogna dire che, al di là di come la si pensi, il padiglione del Canada, attraverso il lavoro di ISUMA (collettivo artistico), ha indubbiamente due grandi meriti socioculturali. Il primo e più evidente è quello di porre sotto ai riflettori le vicissitudini, sconosciute ai più, della popolazione degli Inuit, conferendo all’arte il compito d’insegnarci qualcosa di nuovo.
Il secondo, forse meno esplicito ma altrettanto importante, è quello di trasmettere l’importanza di una condivisione aperta della cultura e della conoscenza. Da anni, infatti, questo collettivo raccoglie su una piattaforma web materiale liberamente fruibile e che è parte integrante di questa mostra (visitabile nel cyberspazio su www.inuit.tv).
L’obiettivo del collettivo canadese è quello di valorizzare la cultura Inuit portando alla luce le conseguenze di ciò che questa popolazione ha subito a seguito del suo ricollocamento, avvenuto per volontà del governo canadese tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Gli Inuit infatti sono un popolo originario delle regioni costiere artiche e in Canada attualmente vivono concentrati in alcuni insediamenti nelle regioni del nord.
L’opera principale del padiglione è l’ultimo film di ISUMA, dal titolo “One Day in the Life of Noah Piugattuk”. Presentato su più schermi con sottotitoli nelle lingue più parlate dai visitatori della Biennale, il film racconta di un incontro avvenuto nel 1961 tra il protagonista Noah Piugattuk, appunto, e un agente del governo incaricato di convincerlo a spostare la sua famiglia, un gruppo nomade che viveva e cacciava con mute di cani nella zona settentrionale dell’Isola di Baffin secondo le tradizioni dei loro antenati, in un insediamento abitativo.
Questo lungometraggio ci mostra uno dei peggiori volti dell’ideologia nazionalista, imposta a una minoranza che non si sente parte di un sistema culturale, percepito al contrario come incomprensibile ma, come scriveva Clifford Geerz ormai più di quarant’anni fa, a proposito degli stati postcoloniali e del nazionalismo: “sembrerebbe quindi il caso di sprecare meno tempo a biasimarlo – è un po’ come maledire i venti – e più a cercare di capire perché prenda queste forme e come si potrebbe impedirgli di lacerare, proprio mentre le crea, le società in cui sorge”.
Accanto al film si troveranno – limitatamente ad alcuni periodi, il prossimo sarà dal 16 al 21 settembre – trasmissioni live streaming (“Silakut Live”) che pongono l’accento sull’attuale problema dell’impatto ambientale che l’espansione di una compagnia mineraria ha in progetto, sia sulle zone precedentemente abitate dagli Inuit, sia sulle aree di riproduzione di balene e trichechi.
Unica vera pecca imputabile a questo padiglione è il fatto di non aver forse tenuto abbastanza conto del contesto in cui l’opera viene proposta, presentando un film di una durata spropositata (quasi due ore) in relazione alla fruizione di un’intera Biennale.
Immagine di apertura: una vista dell’installazione. Foto Francesco Galli. Courtesy La Biennale di Venezia
- Padiglione:
- Canada
- Artisti:
- ISUMA (Zacharias Kunuk, Norman Cohn, Paul Apak, Pauloosie Qulitalik)
- Curatori:
- Asinnajaq, Catherine Crowston, Josée Drouin-Brisebois, Barbara Fischer, Candice Hopkins
- Evento:
- 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia
- Dove:
- Giardini del Castello, Biennale di Venezia
- Quando:
- 11 maggio - 24 novembre 2019