Formatasi alla Tokyo University of Arts, e poi alla Yale School of Architecture, Kumiko Inui (Osaka, 1969) fonda Inui Architects a Tokyo nel 2000. La relativa scarsità di attenzione mediatica per il suo lavoro si deve forse al suo dichiarato disinteresse per la definizione di una poetica fortemente originale, individuale: le sue architetture ambiscono a proporre innovazioni sostanziali, più che linguistiche. La produzione di Inui Architects affronta spesso temi progettuali squisitamente giapponesi.
Il Tasaki Ginza (2010), reinterpretazione del tipico edificio-flagship store tokyota, è un esempio significativo della riflessione sul ruolo urbano del prospetto architettonico. La House O (2018), un volume scavato da un patio e avvolto in un rivestimento impermeabile, ma anche la House M (2018), entrambe nella capitale nipponica, sono case unifamiliari che ricercano una possibile privacy domestica nella metropoli ad alta densità. Il Nobeoka Station Area Project a Miyazaki (2018) sfuma i confini tra lo spazio dei flussi e gli altri programmi, tra cui una biblioteca pubblica, per ancorare la stazione al quartiere che la circonda.
Nei migliori progetti di Inui Architects, come il Kyoai Commons a Gunma (2012), la maglia strutturale e le partizioni interne si limitano a suggerire la delimitazione degli ambiti funzionali, senza imporla. È lo svolgimento delle diverse pratiche da parte di chi abita l’edificio a chiarire la loro estensione nello spazio; l’utilizzo di diaframmi trasparenti assicura la massima permeabilità sul piano visuale.
Nel 2012, lo studio è uno dei quattro partecipanti al Padiglione Giapponese alla 13a Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, curato da Toyo Ito e vincitore del Leone D’Oro. È il primo capitolo di un’indagine ormai quasi decennale sulla ricostruzione post-tsunami, che si concretizza nella realizzazione dell’ossario per i defunti del Great East Earthquake di Otuchi (2017) e del complesso scolastico di Iwate (completato nel 2018).