Se scrivo Caran d’Ache, Faber-Castell, Koh-i-Noor, Staedtler, Conté crayons sono certo che qualcosa affiori dal profondo della memoria, anche se ormai si sono dimenticate le matite da anni, quando si è deciso scrivere e far di conto con altri strumenti più ingombranti e complessi e si è abdicato alla firma, scegliendo quella elettronica. Per questo il volume di Caroline Weaver dedicato alla matita fa al caso nostro: aiuta a rimettere insieme ricordi, gesti incerti, punte spezzate e fogli disegnati quando si era bambini e poi riposti negli album di famiglia come piccoli doni della vita, anche se non si è mai stati dei talenti del disegno. E forse farà guardare con affetto quel mozzicone di matita, là in fondo al cassetto, che chissà perché non abbiamo mai avuto il coraggio di gettare.
Nel generale appassionato recupero di strumenti e tecniche analogiche dimenticate (il disegno a mano, i timbri, il bulino, la stampa a torchio, la serigrafia, la composizione con i piombi), effetto un po’ snob del rifiuto di un lavoro standardizzato al computer, quello della matita ha un posto a sé. La sua storia, ci racconta l’autrice, è unica e piena di sorprese. Mette insieme tradizione centenaria, la scoperta nell’Inghilterra del XVI secolo di un giacimento di grafite purissima, i materiali come l’argilla e il legno (l’acero rosso o il pioppo), le tecniche di produzione che passano nel tempo dall’artigianato all’industria e al design, e poi altri dettagli, non meno importanti: la durezza delle mine (da F a H fino a B, chi non lo ricorda?), i temperamatite di ogni forma e le gomme (perché prima si cancellava con la mollica di pane).