Stefanie Posavec, Giorgia Lupi, Dear Data, Particular Books, London 2016, 304 pages.
Dear Data
Le autrici di Dear Data Giorgia Lupi e Stefanie Posavec raccontano come si sta evolvendo il progetto di visualizzazione dati: tra le persone di tutto il mondo e tra le scuole di diversi ordini e gradi.
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- Stefania Garassini
- 17 marzo 2017
Distratti, frettolosi, smemorati, incapaci di fermarci a contemplare. Così tendiamo a essere, e nella tecnologia troviamo un potente alleato. Grazie allo smartphone possiamo sempre sentirci “altrove”, impegnati in conversazioni e relazioni lontane da ciò che abbiamo sotto gli occhi in quel momento. I dati che le macchine elaborano servono a rendere ancora più efficiente questo processo: troviamo più rapidamente ciò che cerchiamo e in meno tempo siamo in grado di condividere foto e video con i nostri contatti. Ma proprio da quegli stessi dati potrebbe arrivare la soluzione: un modo più attento, quasi contemplativo di guardare a quanto ci succede durante le nostre giornate.
La condizione è considerare quei dati non più soltanto come elementi aridi e impersonali, ma come una materia prima che, opportunamente trattata, può raccontare la nostra vita, e farcela percepire con occhi diversi. Per farlo occorre, innanzitutto, togliere il computer dalla scena. I dati sono roba nostra, le macchine servono solo a elaborarli, ma potremmo benissimo farlo da soli. È la convinzione di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec, artiste attive da anni nel campo della visualizzazione dei dati, residenti rispettivamente a New York e a Londra, che per un anno si sono scambiate ogni settimana un resoconto di un aspetto particolare della propria vita. Ognuna di loro raccoglieva un certo tipo di dati (come i trasporti pubblici presi, gli orologi visti, le porte attraversate, ma anche le risate, i momenti d’indecisione, gli addii, i complimenti ricevuti, i desideri) riassunti poi in una rappresentazione grafica disegnata a mano su una cartolina. Dal progetto che è entrato a far parte della collezione permanente del MoMA di New York, è nato un libro che ne porta il nome: Dear Data. “Il nostro scopo era mostrare come attraverso i dati si possa comunicare anche qualcosa di più caldo, emozionale, che fa parte della nostra vita”, spiegano le due artiste.
Stefania Garassini: Avete scritto che Dear Data si propone di utilizzare i dati per aiutarci a diventare più “umani” e non più efficienti. Com’è stato possibile nel corso del progetto arrivare a una comunicazione davvero autentica e profonda? Giorgia Lupi, Stefanie Posavec: Si tende ad associare normalmente il ‘quantificabile’ e il ‘ quantitativo’ con la precisione e l’obbiettività, perciò l’uso dei dati personali viene visto come un modo per risolvere problemi e trovare risposte razionali. Noi non vogliamo ottimizzare la nostra vita, siamo spinte piuttosto dalla curiosità di scoprire dettagli apparentemente insignificanti delle nostre giornate; in questo modo, abbiamo imparato a fare più attenzione a ciò che ci circonda e a come noi lo percepiamo, settimana dopo settimana. Naturalmente non tutti hanno tempo di dedicarsi a un progetto come il nostro, ma nel corso di quest’anno, in cui abbiamo monitorato le nostre relazioni, amicizie e interazioni, abbiamo potuto toccare con mano come i dati non siano entità astratte, raccolte e gestite da grandi istituzioni, ma qualcosa di molto vicino a noi, che ognuno possiede e può trovare in ogni aspetto della propria vita, e che ci possono aiutare e comprendere meglio noi stessi. Si tratta di una materia prima, un materiale che usiamo per osservare e documentare la realtà. Nel progetto Dear Data togliere di mezzo il computer ci ha spinto a trovare modi diversi di guardare i dati, che ci hanno fornito il pretesto per dire qualcosa di noi stesse.
Stefania Garassini: Che tipo di dati avete raccolto e in base a quali criteri li avete scelti? Giorgia Lupi, Stefanie Posavec: La domenica sera decidevamo che cosa avremmo osservato quella settimana. Prima di cominciare avevamo una lista di 52 possibili temi che ci sembravano adatti al progetto, ma quando poi cominciavamo davvero a lavorare in alcuni casi ci rendevamo conto che non era possibile raccogliere quel tipo d’informazione. Con il passare dei mesi, poi, siamo passate da una raccolta di dati quasi in tempo reale a settimane in cui invece facevamo una sorta d’inventario di parte dei nostri oggetti a uso dell’altro, per arrivare a conoscerci meglio. Così abbiamo creato rappresentazioni grafiche del nostro guardaroba, brani musicali, libri e così via. Inoltre, poiché sappiamo bene che raccogliere dati sul proprio comportamento provoca dei cambiamenti, abbiamo introdotto anche delle settimane “performative”, durante le quali raccogliere dati su una certa attività nella speranza di migliorare il nostro atteggiamento: ad esempio ci siamo proposte di ‘contare’ i gesti di gentilezza o i sorrisi”.
Stefania Garassini: Adesso Dear Data è aperto alla partecipazione degli utenti, in particolare studenti e insegnanti. Come sta andando questa fase del progetto? Giorgia Lupi, Stefanie Posavec: Siamo molto soddisfatte della diffusione e partecipazione che ha riscosso il progetto. Ci sono centinaia di persone da tutto il mondo con background completamente diversi fra loro che stanno facendo sperimentazioni con i propri dati personali e condividono i risultati con noi. Insegnanti di vari ordini di scuola usano il metodo Dear Data per spiegare ai propri studenti come funzionano i dati, e abbiamo visto risultati di altissimo livello grafico prodotti da ragazzi. Crediamo che lavorare con i dati in modo analogico, personale, come proponiamo noi, abbia reso questo mondo familiare anche a un pubblico non specialistico, avvicinandolo alla vita quotidiana. Il nostro intento è coinvolgere un pubblico sempre più ampio.
Stefania Garassini: Che cosa avete imparato in questi mesi? Giorgia Lupi, Stefanie Posavec: Dear Data è stato l’occasione per avviare una ricerca a lungo termine su vari aspetti della nostra vita. Alcune settimane sono state particolarmente illuminanti, specialmente quelle che toccavano aspetti delicati, come le nostre ossessioni e paure, o quelle più personali, come le relazioni con i nostri fidanzati e mariti. Nel corso dei mesi si è andato via via componendo un ‘ritratto’ dell’altra attraverso quei 52 piccoli frammenti della personalità. È stato possibile ricostruire pensieri, abitudini, il suo particolare modo di affrontare le situazioni. Così, ciò che scoprivamo ogni settimana andava ad aggiungersi all’idea che ci eravamo fatte. Ma la lezione più importante è stata certamente capire l’importanza di prestare attenzione a noi stessi e a quanto ci circonda. Grazie al progetto abbiamo fatto pratica. Abbiamo imparato come si fa a essere più attente.
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