Un atlante sul rapporto tra cibo e città. Per collegare l’Italia alle esperienze globali in questo campo. Food and the cities. Politiche per una città sostenibile (Edizioni Ambiente) è stato pubblicato lo scorso autunno, in tempo per la chiusura di Expo 2015 e la firma del Milan Urban Food Policy Pact. A qualche mese di distanza, ora che diventa più facile, nel dibattito pubblico, scindere il tema dell’esposizione universale dalle controversie politiche particolari legate all’organizzazione e gestione dell’evento, è forse un buon momento per riscoprire questo libro.
Al di là di quella statistica ormai così citata da aver perso ogni mordente – l’avvenuto sorpasso del numero degli abitanti dei nuclei urbani su quelli delle campagne – Food and the cities raccoglie cifre sorprendenti sulla rilevanza demografica e produttiva dell’agricoltura in città, che già nel 1996 l’ONU stimava responsabile del 20% della produzione di tutto il cibo mondiale. Soltanto per citare due casi: sui soli terreni di proprietà pubblica a Berlino si contano circa 80 mila giardinieri di comunità (più altri 16 mila in lista d’attesa), mentre a Vancouver il 40% della popolazione è coinvolto in modo diretto in forme di coltivazione.
Secondo i curatori, questi e molti altri fatti sarebbero la dimostrazione che quello che sta andando in scena in Occidente (questo il territorio di analisi del volume, pur nel riconoscimento del ruolo ispiratore giocato dalle capitali asiatiche) è uno stravolgimento del rapporto tra città e campagna per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi sessanta o settant’anni. Dopo una lunga fase di “rimozione del rurale dalla cultura moderna”, tra le cui vittime si annoverano quelle fasce periurbane viste come “territori senza qualità”, decine di metropoli hanno riscoperto – o dovuto riscoprire, per far fronte a problemi sempre più pressanti – un nuovo bilanciamento tra le due dimensioni.
Parliamo di un ecosistema che, pur assumendo dimensioni e termini diversi nei vari paesi, si orienta intorno a realtà come “orti, giardini e coltivazioni comunitarie, mercati per prodotti locali, educazione alimentare di base, cucine condivise, attività di redistribuzione delle eccedenze alimentari, monete complementari a circolazione locale, e altre microeconomie che si sviluppano lungo tutte le fasi del ciclo alimentare, dalla produzione fino al riuso e al riciclo di rifiuti organici e scarti alimentari”.
Se Caroline Steel in Hungry Cities ha scritto che “le città sono quello che mangiano”, Calori e Magarini propongono una definizione del cibo come “infrastruttura urbana”. Regolare le possibilità d’azione, o supportare le azioni spontanee della popolazione, significherà allora andare a toccare “l’innovazione sociale ed economica, le politiche di welfare, il governo e […] le stesse rappresentanze democratiche”, incoraggiando, in continuità con una componente storica della cultura agricola, “il mantenimento e la riproduzione di patrimoni che non sono interamente monetizzabili”.