Ogni esposizione museale è una forma di teatro sociale con un programma e un progetto. A dispetto dei tentativi dei curatori di mantenere il controllo di una mostra, questa rimane la forma di teatro sociale più indisciplinata ed effimera. Il pubblico guarda chi e che cosa più gli pare, vede quel che vuole e non quel che dovrebbe vedere, trascura quel che vuole, presta attenzione se ne ha voglia, chiacchiera quando gli pare e – se appena gliene si dà la minima possibilità – gira dove gli pare. Perciò si tratta dell’unica forma in cui, se ce n’è l’occasione, gli eventi imprevisti – condizione sine qua non della teoria architettonica di Tschumi – hanno la massima probabilità di susseguirsi rapidamente.
Naturalmente una mostra non è architettura: l’arco di tempo è troppo breve e il livello di consapevolezza troppo ristretto, anche se la parentela è stretta. Che l’architettura tuttavia sia anch’essa una forma di teatro sociale è un’idea implicita nelle teorie di Tschumi e le ineliminabili promiscuità che danno luogo agli eventi sono intrinseche all’essenza stessa dell’architettura.
Calcolata per dare certezze ma per evitare godimento o irritazione, fascinazione o noia, in una parola per evitare del tutto risposte semplici. Per raggiungere questo scopo alla pseudo-oggettività del particolare sguardo che ispirano i campionari si uniscono la stratificazione di densità concettuale e l’ondivaga atonalità di una composizione tardo-seriale, di quelle caratterizzate da un nucleo dalla solidità inattaccabile. Una possibile motivazione di questo obiettivo si dimostra fondamentale per la mia seconda risposta: con questa mostra Tschumi conferma la sua qualità di architetto più compiutamente teorico della sua generazione.
Perché? Prima di tutto l’impostazione teorica dell’evento di Tschumi ha inaugurato il tema più importante e di più lunga vita della teoria architettonica del XX secolo, senza eccezioni, compresi la funzione, l’organizzazione a collage, la psicogeografia e il détournement, il contesto, i rapporti formali, il modello linguistico – tutti filoni oggi esauriti. Anche a quarant’anni di distanza la teoria dell’evento continua ad ampliarsi, oggi ben oltre le prospettive stesse di Tschumi. Abbiamo scalfito la superficie, abbiamo fatto più che scalfirla, ma siamo ben lungi da notare qualunque calo di interesse.
E in secondo luogo Tschumi, più d’ogni altro teorico del suo livello, ha fatto del costruire un fattore esplicito del suo progetto teorico, dichiarando che “l’architettura è la materializzazione delle idee”. E visitando un edificio di Tschumi se ne ha la certezza, la sua materializzazione delle idee va oltre ogni dubbio.
Queste idee non sono affatto ‘soluzioni’ quotidiane alle funzioni e al contesto. Sono piuttosto raffinate congetture socioarchitettoniche che informano ogni scelta. Sotto questo aspetto un tema messo in luce dalla mostra è il passaggio dalla primitiva impostazione astratto-notazionale del costruire alla schietta tettonica che predomina nell’opera degli ultimi anni Novanta. Ricordo che Tschumi ne parlava all’epoca come del suo collocarsi al grado zero dell’architettura, definizione scomparsa dai suoi scritti ma che userò qui per convenienza. Certamente è questione di qualche importanza teorica.
E costantemente – a Rouen, a New York, ad Atene, a Le Fresnoy, a Miami, a Parigi, a Cincinnati, dovunque io sia andato – la presenza nell’architettura di concetti teorici è inconfondibile. Più di una volta, tuttavia, questa presenza mi ha posto dei problemi. Comprendo le idee e le apprezzo, ma sono così presenti, così ostinate che temo arrivino pericolosamente vicino a rendere inerte l’edificio, a congelarlo invece che a usarne ogni potenzialità per favorire gli eventi.
Come architetto teorico non c’è dubbio che Bernard Tschumi abbia lavorato nelle sue opere da sperimentatore rigoroso e di integrità assoluta. Ma come suo collega teorico, tuttavia, scendo in campo: ne vale la pena. Dov’è il problema? Che cosa occorre perché la probabilità di uno spazio specificamente destinato all’evento divenga manifesta? Quale sarà la prova di questa epifania? O forse, come ho suggerito, se l’accadere dell’evento dipende da calcolate deviazioni dell’attenzione, un po’ come fa la colonna sonora di un film, forse la mia provata consuetudine con le idee va contro la mia disponibilità a esse. Tschumi non affronta questi problemi, benché siano stati sollevati e affrontati in qualche misura da altri teorici.
Mi sono chiesto se il problema potesse nascere dalla sua traduzione letterale delle idee nei materiali: non lascia spazio all’improvvisazione o alla casualità. Un altro concetto deriva dai primi scritti di Deleuze e Guattari sugli effetti dell’arte in termini di percetti, concetti e affetti, negli stessi passi in cui trattano il tema dell’evento. Forse il difetto, se ce n’è uno, sta per così dire nella dedizione di Tschumi alle idee.
Agli scritti da primi della classe preferisco i più recenti del solo Deleuze. In essi l’autore associa le idee alla filosofia, i percetti e gli affetti alle arti e i funtivi alle scienze, e i tre filoni non si incontrano mai. Il che significherebbe che Tschumi ha lavorato esclusivamente sui percetti e sugli affetti, al di là delle terminologia che usa. Invece nella mostra il tema del grado zero mi ha colpito in quanto affine alla discussione di Deleuze del puro affetto privo di sentimenti e di emozioni. Ho frainteso la sua opera per decenni!
Non avevo mai considerato prima la possibilità che l’evento fosse una funzione di puro affetto invece che un comportamento. Ora, dopo la mostra, credo che l’opera di Tschumi sarebbe meglio compresa come iniezione di dosi di puro affetto, di disturbi non ordinari della sensazione che agiscono al di là dell’intelletto, che agirebbero quindi sia nel tempo come memoria sensoriale, sia istantaneamente come modificatori del comportamento.
In ogni caso al Centre Pompidou una cosa è chiara. Come architetto teorico Bernard Tschumi ha stabilito l’infrastruttura della teoria e della sperimentazione con tale rigore, tale nettezza e tale coraggio che ogni risultato da lui raggiunto ha il valore di un contributo, positivo o di grado zero; e che, nel prevedibile futuro, generazioni di architetti continueranno a trarne slancio, prospettive e obiettivi per le loro personali ricerche e tendenze. Tschumi non crea epigoni o predecessori, crea sapere architettonico. Come volevasi dimostrare.
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