Movimenti del pensiero
Siamo andati in Giappone per diversi anni, a dispetto del fatto che siamo architetti moderni—o forse a causa dei modi attraverso i quali gli architetti moderni, da Bruno Taut a Wright, da Gropius ad altri, hanno propagandato l'architettura classica di Kyoto. Ogni generazione di architetti occidentali ha visto nel Giappone ciò che voleva vedere.
Robert Venturi, Denise Scott Brown
Due "naif" in Giappone (1996), 2000
Lo spazio storico che corre tra la fine dei ciam e l'affermarsi di quella che è stata chiamata architettura postmoderna è uno delle zone franche più interessanti del secolo scorso: mentre in occidente il modernismo sembrava collassare a causa della manovra a tenaglia del Team 10, da un lato, e dei neo-formalisti (Venturi, Rossi, Ungers, il primo Eisenman) dall'altro, mentre (ri)spuntavano tentazioni populiste (Rudofsky, De Carlo), Pop (Archigram) o radicali (Superstudio, Haus Rucker-Co etc.), il modernismo rialzava la testa in altre zone del pianeta, con una forza tale che l'Europa aveva conosciuto solo all'inizio del secolo breve, vale a dire durante la nascita delle avanguardie nel 'periodo eroico dell'architettura moderna'.
Sarà un caso, ma uno dei testi più completi fra i non molti che ultimamente hanno cercato di restituire questo periodo aggrovigliato, Superarchitecture di Dominique Rouillard [1], si conclude sulla figura di Rem Koolhaas. Non è una scelta molto originale, in verità, visto che ormai la centralità dell'architetto olandese è innegabile e durevole: il decennio che ci siamo appena lasciati alle spalle si è aperto con il conferimento del Pritzker Prize (nel 2000) e chiuso con il Leone d'Oro alla Biennale di architettura, senza contare l'aumentare della sua azione professionale e accademica, da Harvard allo Strelka Institute di Mosca. In ogni modo, nel discorso di accettazione dello scorso anno, Koolhaas dichiarava che era un onore ricevere il premio a Venezia e proprio da quel direttore (Kazuyo Sejima), perché le due culture nazionali a cui si sente più legato sono quella italiana e quella giapponese.
Ebbene, Project Japan dimostra che non si trattava solo di parole di circostanza. Il volume, varato nel 2005, pur avendo al centro i metabolisti, analizza il contesto culturale e le vicende giapponesi fra il 1940 e il 1985, ma con al centro il decennio 1960–70 che, grosso modo, ha visto consumarsi la parabola del Metabolismo, considerato qui come l'ultimo movimento di avanguardia: il suo manifesto è dunque anche l'ultimo del modernismo tout court. Dopo il Metabolismo ci saranno solo neoavanguardie, radicali o neorazionaliste, ma non più moderniste (questa tesi è condivisa da Isozaki, che pure non ha mai fatto ufficialmente parte dei metabolisti).
Dopo il libro su Lagos (annunciato su Amazon, ma ancora non distribuito) e i tre dedicati al Golfo Persico, ecco allora che Project Japan chiude questa singolare trilogia che complessivamente guarda al futuro della città nel xxi secolo.
Del resto, le domande che Koolhaas pone agli interpellati, quasi tutti architetti, sono spesso domande autobiografiche, che cioè sembrano poste a se stesso: quando chiede a Maki, a proposito del suo lungo progetto per gli Hillside Terrace a Tokyo: 'Ciò che mi piace è che qui le ambizioni sono così sottili che ogni tipo di spettacolo scompare. Diresti che è vero per il tuo lavoro in generale che stai cercando di ottenere sempre di più un effetto sottile o no?'; oppure quando chiede a Kurokawa: 'Ripercorrendo la tua carriera oggi e il modo in cui hai esteso il campo architettonico negli anni '60 con le apparizioni televisive, le mostre e gli eventi, diventando una figura pubblica, pensi che tutto ciò facesse parte dell'idea di portare la vita dentro l'architettura?', pone quesiti su temi forse contraddittori, ma certo parte della complessa personalità koolhaasiana. Basti pensare alla differenza abissale che corre fra il progetto neometabolista di oma per un iper-edificio a Bangkok (accostato nel libro a uno di Kurokawa per Tokyo del 1997, p. 694) e quello in costruzione per la borsa valori di Shenzhen, che sembra invece uscire direttamente dalle pagine di Groszstadt Architektur di Hilberseimer.
Se Project Japan non è un libro di storia, come è affermato più volte qua e là, e se non è un catalogo, allora che cos'è? In un periodo in cui le ricerche sull'architettura sono divaricate fra quelle storiche che tendono verso deliri filologici e autoreferenziali (per gli storici) e sparuti instant-book di architetti allegramente autocelebratori e superficiali, sarebbe forse il caso di recuperare lo strumento della critica operativa di cui Project Japan è un innegabile e alto esempio, oltre a essere una descrizione di movimenti del pensiero architettonico come non se ne vedeva da anni. Manuel Orazi
NOTE:
1. Dominique Rouillard, Superarchitecture. Le futur de l'architecture 1950-1970, Éditions de la Villette, Paris 2004.
2. Rem Koolhaas, Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli alla Potemkin… o trent'anni di tabula rasa, a cura di Manfredo di Robilant, Quodlibet, Macerata 2010, p. 7.
3. The Gulf, Lars Müller, 2006; Al Manakh, Columbia University GSAPP, 2007; Al Manakh Cont'd, Volume no. 23, 2010.
4. N. Kawazoe, K. Kikutake, M. Otaka, F. Maki, K. Kurokawa, Metabolism 1960: Proposals for a New Urbanism, Bijutsu Shuppansha, Tokyo 1960. Il volume è molto simile a L'Architecture mobile di Yona Friedman, il manifesto ciclostilato del Groupe d'Etude d'Architecture Mobile (geam) che fra il 1958 e il 1964 circolò per il mondo spontaneamente, senza un editore e molto prima di Amazon.
5. Genero e socio di Gio Ponti, esperto di questioni tecnologiche e di design, Rosselli forse era un ambasciatore in incognito di Domus per l'occasione.
6. Rem Koolhaas, intervistando Isozaki, p. 51.
7. Kisho Kurokawa, p. 383.
8. Reyner Banham, The Japonization of World Architecture, in aavv, Contemporary Architecture of Japan 1958-1984, a cura di R. Banham e Hiroyuki Suzuki, Rizzoli International, New York 1985, pp. 18 sgg.