Ecological Urbanism

Attraverso le categorie di definizione, popolarità e ambizione, l'autore analizza la tendenza urbanistica incentrata sulla sostenibilità.

Ecological Urbanism, a cura di Moshen Mostafavi e Gareth Doherty, Lars Müller Publishers, Baden 2010 (pp. 656, € 39.90)

La prima parte della corposa pubblicazione della Harvard University Graduate School of Design Ecological Urbanism ("Urbanistica ecologica") si intitola Anticipate ("Anticipare") e presenta una tavola grafica realizzato da IDS Architects. Per riprendere la forma della precedente recensione e usare una parafrasi concisa, il giovane studio belga individua tre problemi connessi con la tendenza urbanistica incentrata sulla sostenibilità: la definizione, la popolarità e l'ambizione. Ho usato queste categorie come sintetica cornice della disamina critica di questo massiccio libro.

Il problema della definizione è una questione che riguarda in prima istanza la retorica (che cosa significa esattamente essere "verde", "sostenibile", oppure "ecologico"?) ma anche i confini fisici del settore (abbiamo davvero a che fare solo con l'urbano, e possiamo distinguerlo chiaramente dal rurale?) e i suoi confini disciplinari (in una pubblicazione di questo genere che rapporto c'è, con precisione, tra architetti, artisti, ingegneri, economisti, agronomi, filosofi, pianificatori, politici?). I libro amplia il campo dall'urbanistica del paesaggio per affrontare questioni teoriche ambientali ed ecologiche e per includere il più ampio quadro disciplinare che definisce la condizione urbana. La differenza tra urbanistica ecologica e urbanistica del paesaggio resta per certi aspetti vaga, e i termini "ecologico", "verde" e "sostenibile" sono liberamente intercambiabili, come conseguenza del problema di definire i modi di una strategia ecologica. L'ecologia è intrinsecamente difficile da classificare, come si evince dalle ripetute critiche alla ristrettezza dei vincoli definiti dalla LEED (Leadership in Energy and Environmental Design) e da altri standard di sostenibilità.

Questa pluralità di significati si riflette nell'organizzazione caotica del libro. Progetti disparati, ricerche analitiche e scritti teorici sono raggruppati sotto titoli vaghi come Collaborate ("Collaborare") e Adapt ("Adattare"), segno di una tendenza complessiva alle soluzioni informali. In buona sostanza molte metodologie e molti progetti evitano prese di posizione formali in favore di interventi di piccola scala, progetti urbanistici interstiziali e soluzioni pragmatiche. Molti articoli citano l'auto-organizzazione delle favelas e delle baraccopoli brasiliane, indiane, africane, mentre nodi, reti e campi sono i principi organizzativi d'elezione. Nel libro la formalizzazione compiuta resta soltanto aneddotica, nei monumenti di Peter Galison alla spazzatura nucleare e nei metodi di Zhang Huan per innalzare il livello dell'acqua in uno stagno.

Dal caotico tentativo di mettere insieme i contenuti di un convegno e di una mostra esce un ordine cronologico, un "equilibrio ipotetico" come dice Mostafavi nell'introduzione, tra il riesame dei progetti passati, prendendo atto della situazione attuale e cercando di porvi rimedio, e lo sguardo rivolto alle soluzioni per il futuro. Mostafavi identifica questo movimento come uno strumento per definire un modello di pianificazione più coerente, in grado di riunire gli sforzi di gruppi differenti come quelli rappresentati dagli autori riuniti nel libro: dagli innovatori popolari a coloro che evocano le nostalgiche teorie di Gaia.

Quanto al problema della popolarità dell'ecologia, esso viene finalmente affrontato dal libro. La deliberata scelta di una copertina rosso vivo (invece dell'onnipresente verde ecologico) e la decadente (ma riciclata) massa di carta sono in grado di dare risalto a questi problemi nelle librerie specializzate in architettura e nella testa degli architetti. L'ecologia è inevitabilmente un tema non popolare, che richiede "umiltà" da parte dell'architetto, come ha sottolineato Rem Koolhaas, nonché un ritorno alle teorie della Deep Economy degli anni Settanta, cariche di connotazioni passatiste, come ha notato Kwinter. Il problema non sta solo nel fatto che la sostenibilità non era di moda, ma che era anche restrittiva e fastidiosa da mettere in pratica, facendo dell'architettura "un compito invece che una passione" (JDS) mentre dovrebbe essere "liberatoria invece che oppressiva" (Kwinter). I libro presenta, grazie alla mano leggera del curatore, esperti di sostenibilità di profonda serietà come Koen Steemers accanto ad artisti ambigui come Chris Neiman, dando al lettore tutti gli stimoli visivi e teorici che si possano desiderare per impegnarsi ambiziosamente nel campo dell'urbanistica ecologica.

Mostafavi definisce le ambizioni dell'urbanistica ecologica attraverso l'individuazione di tre forme internazionali dell'ecologia contemporanea, riprese da un quotidiano, dando per scontata l'ampia portata degli strumenti del convegno, del libro e del dibattito costante. Il sottotitolo del convegno, Città del futuro alternative e sostenibili, è palesemente non rispettato e i contenuti del volume guardano sia indietro sia avanti, suggeriscono di sperimentare, misurare, percepire, adattare, incubare, rimediare e collaborare per realizzare un'urbanistica ecologica (in ogni accezione).

L'introduzione di Mostafavi definisce il libro come una cornice, ma al primo sguardo esso appare più un compendio enciclopedico di tutte le idee su qualunque argomento ecologico degli ultimi dieci anni. È un catalogo che avrebbe meritato, sotto l'aspetto sistematico, un poco più di precisione da parte del curatore. In termini di prospettiva le proposte architettoniche partono dalla scala iperlocalistica del percorso dei rifiuti di New York ma superano la scala dell'architettura per abbracciare le infrastrutture, gli ecosistemi e infine le fasce planetarie con il programma di energia eolica Zeekracht di OMA.

Il libro è infinitamente autoreferenziale, con commenti che vanno dal ripensamento delle idee di Waldheim dell'introduzione di Mustafavi agli interventi di Koolhaas, Bhadi e Kwinter e ai post del blog del convegno che danno conto delle reazioni, filtrate ma "immediate", ai discorsi tenuti in diretta. Il recente convegno, svoltosi in occasione dell'apertura riservata della Biennale di Venezia 2010 lo scorso agosto, dà la certezza che i problemi sollevati con tanta eloquenza diciotto mesi fa a Boston continuano a raggiungere un pubblico raffinato e sensibile.

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