Deserti americani, Reyner Banham, Einaudi, Torino 2007 (pp. 212, € 19,00)
Che ci fa uno storico dell'architettura nel bel mezzo del deserto del Mojave ai confini della California con il Nevada? Qui, dove l'unico tessuto urbano è quello delle autostrade interstatali e la presenza dell'uomo è testimoniata da qualche pompa di benzina e un paio di motel scalcagnati, mentre un segnale stradale dà utili informazioni all'automobilista: "Kelso 34 miglia, nessun'area di servizio. Prossima area di servizio a 68 miglia"? A bordo di una V8, in testa uno Stetson sporco e sgualcito, Reyner Banham sta percorrendo la Interstate 15 tra Los Angeles e Las Vegas, diretto a sin city: è il febbraio 1968, come molti della sua generazione è un fan della cultura pop, affascinato dalle luci intermittenti al neon e dalla lunga carrellata segnaletica dei saloon e dei casinò della capitale mondiale della dissoluzione dei costumi, sorta agli inizi dell'Ottocento come abbeveratoio lungo l'Old Spanish Trail. Ma alle porte di Baker, un abitato senza molte attrattive sulla rotta Barstow-Las Vegas, è quasi costretto a deviare, rapito da un'atmosfera di esotismo polveroso, un paesaggio talmente lontano dalle precedenti esperienze, da lasciare in lui un marchio indelebile. Ben presto diventa un devoto del deserto. Le valli attraversate dalla Interstate 15 sono larghe in media 25 km, gli spazi sono incommensurabili, il divario con l'universo popolato di muffe e brughiere della sua infanzia nel Norfolk non può essere più profondo.)
È qui, nel Mojave, attraversato dall'omonimo insignificante rigagnolo, che Banham riceve il battesimo del deserto, spazio cinematografico prim'ancora del cinema, luogo prediletto da registi e scrittori. Molte immagini della fantascienza provengono da qui, qui sono avvenuti i primi avvistamenti di Ufo e sempre qui sono state fatte esplodere le prime bombe atomiche. Qualche miglia più a sud c'è l'oasi di Kelso, un punto di rifornimento d'acqua, occasione eccellente per studiare il rapporto tra l'uomo e l'ambiente arido, una stazione costruita dalla Union Pacific Railway in stile coloniale spagnolo. Anche in un ambiente apparentemente vergine, quasi lunare c'è materiale per lo studioso: pozzi vuoti, miniere abbandonate, architetture ferroviarie, stazioni di servizio, alberghi e locande, come il Furnace Creek Inn, situato poche miglia a ovest dal celebre Zabriskie Point, nella Death Valley, circondato da un palmeto che gli conferisce l'aspetto naturale di un giardino di Beverly Hills. Costruito sui terrazzamenti di vecchie miniere di borace, un cristallo morbido bianco usato nella fabbricazione di saponi e detergenti, è un'altra delle molte minime testimonianze del passaggio dell'uomo in questo luogo apparentemente lontano da tutto: segno di un turismo recente reso possibile dall'automobile, ma anche del tramonto di un'industria estrattiva un tempo fiorente. E sono proprio i più minuscoli segni di civiltà a catturare l'interesse del viaggiatore: una roulotte parcheggiata, le impronte di pneumatici sulla sabbia, i tralicci dell'alta tensione. La frase secondo cui "il deserto è là dove si trova Dio e non si trovano gli uomini" non ha molto senso per Banham, intento piuttosto a capire cos'abbia a che fare l'uomo con l'esistenza stessa del deserto.)
Ma il deserto è anche stato il luogo ideale dell'utopia e di alcune versioni più radicali di essa: è infatti nel deserto dell'Arizona, che due architetti come Frank Lloyd Wright e Paolo Soleri trovarono, giungendo a risultati pressoché opposti, qualcosa di molto simile a un foglio bianco su cui tracciare un nuovo inizio, dar sfogo alle proprie diverse fantasie di comunità sgombre da pregiudizi e libere dal giogo della proprietà terriera. Grazie a uno sguardo profondamente lucido, consapevole dell'armamentario culturale con cui si accinge a percorrere un territorio del tutto straniero, ma sempre al riparo dai luoghi comuni, Banham riesce in questo libro a correggere alcune idee acquisite sul deserto americano, a sfatare alcuni dei suoi miti più resistenti, preoccupato della deriva disneyana che processi di eccessiva museificazione di questo habitat possono innescare, critico nei confronti di coloro che in questo luogo ambiscono a "ritrovare se stessi", ma ugualmente severo nei confronti di un ecologismo di maniera che vorrebbe imbalsamare il deserto. Il libro uscito in lingua originale nel 1982, frutto di una conoscenza del deserto del sudovest americano accumulata in più di dieci anni di esperienza sul campo, viene tradotto solo oggi in italiano: dal 1994 il deserto del Mojave, inizio e fine di questo affascinante racconto, è riserva nazionale e, dal 2005, la stazione di Kelso è stata trasformata in visitor center.
Michela Rosso Docente di Storia dell'architettura a Torino