Katsura la villa imperiale, A cura di Virginia Ponciroli Electa, Milano 2004 (pp. 400, € 110,00)
“Caro Corbu, tutto ciò per cui abbiamo lottato ha il suo parallelo nell’antica cultura giapponese. Questo giardino di roccia dei monaci Zen del tredicesimo secolo – pietre e ciottoli bianchi rastrellati – potrebbe essere stato disegnato da Arp o Brancusi – un inebriante angolo di pace. Saresti entusiasta quanto me in questo resto di colta saggezza vecchia di 2000 anni! La casa giapponese è la migliore e più moderna che io conosca e autenticamente prefabbricata”. Così scriveva Walter Gropius a Le Corbusier nel giugno 1954. L’architetto tedesco, ormai naturalizzato americano, aveva intrapreso un viaggio in Giappone, in occasione del quale aveva visitato la villa imperiale di Katsura a Kyoto.
L’occasione l’aveva spinto a scrivere a Le Corbusier: poche righe che sintetizzano una riflessione – quella sui rapporti tra la cultura storica giapponese e la modernità europea – che ricorre in maniera sorprendentemente frequente tra i protagonisti dell’avanguardia, non solo architettonica, del XX secolo. Le Corbusier visiterà la villa imperiale l’anno successivo; nel tracciare sul suo carnet (J37) uno schizzo della pianta modulata dai tatami della piccola camera “à coucher du prince”, sorpreso dal rigore ma anche dalla frugalità dell’ambiente annoterà: “La princesse est modeste”, e tale osservazione è ripresa come titolo dell’incisivo scritto di Francesco Dal Co, che chiude il volume soffermandosi proprio sulle ripercussioni dell’onda lunga di Katsura sulla cultura architettonica occidentale. Anche Bruno Taut aveva profondamente subito il fascino della villa imperiale, come ben ricostruisce il saggio di Manfred Speidel all’interno del volume, a cui segue la riproposizione di alcuni testi dello stesso Taut, accompagnati dai disegni e dagli appunti che l’architetto tedesco impresse in un piccolo album nel 1934 (Gedanken nach dem Besuch in Katsura).
“L’intero complesso – scrive Taut – da qualunque lato lo si osservava, seguiva in tutte le sue parti in modo assolutamente elastico lo scopo che ognuna di esse, così come la totalità, era destinata ad assolvere, fosse esso quello della normale utilità quotidiana, oppure uno scopo di rappresentanza, oppure ancora quello di esprimere una elevata spiritualità filosofica. E la cosa meravigliosa era che tutti e tre questi scopi erano così intimamente connessi in una unità, che non si percepivano i confini tra uno e l’altro”. L’intreccio di relazioni che Katsura rappresentava diventa, ben oltre e indifferentemente dalla pregnanza formale, il simbolo di quella metaforica ‘catena’ che Taut aveva teorizzato già a partire dal manifesto dell’Alpine Architektur (Hagen 1919). Katsura, e in modo più ampio la cultura giapponese, forniva insomma una conferma alle riflessioni che gli architetti, e gli artisti, occidentali stavano sviluppando all’inizio del XX secolo. Del resto il fenomeno del Japanism era già ben diffuso alla fine del XIX secolo in Europa e negli Stati Uniti.
Per il suo The Bridge (1886) Vincent van Gogh aveva ripreso una delle più note stampe di Ando Hiroshige, mentre oltreoceano i cosiddetti Boston orientalists – tra i quali Edward Morse ed Ernest Fenollosa – divenivano dei veri e propri ambasciatori e promotori della cultura giapponese in Occidente. Ben presto gli artisti passarono dall’imitare le forme della tradizione nipponica, a trarne spunto per una più meditata riflessione teorica. Anche sull’architettura questo fenomeno ebbe un’influenza tangibile, e un altro dei protagonisti della cultura architettonica del XX secolo, Frank Lloyd Wright, nutrì un fortissimo interesse verso l’arte giapponese. Nel 1905 l’architetto americano compì il suo primo viaggio in Giappone – paese nel quale sarebbe ritornato più volte, trascorrendovi anche un lungo periodo tra il 1916 e il 1922 per la costruzione dell’Imperial Hotel – il cui itinerario toccò Kyoto, anche se nel documentatissimo volume curato da Melanie Birk, Frank Lloyd Wright’s Fifty Views of Japan. The 1905 Photo Album (San Francisco 1996), non è documentata una sua visita a Katsura.
Comunque, come ben dimostra Kevin Nute nel suo Frank Lloyd Wright and Japan (London 1993), la cultura giapponese ebbe una grande influenza sul lavoro di Wright, che vi vedeva – come sarebbe accaduto a Taut e poi a Gropius, fino a Le Corbusier – la conferma di una ricerca pur partita da un altro contesto. Un saggio iniziale di Arata Isozaki testimonia il perdurare dell’interesse degli architetti contemporanei per Katsura; oltre a ricostruire la storia della villa imperiale, realizzata tra il 1617 e il 1663, Isozaki illustra le vicende e le soglie temporali della costruzione dei vari padiglioni, discutendo anche la paternità del complesso attualmente esistente, tradizionalmente attribuito a Kobori Enshu (1579-1647), l’architetto di giardini e maestro del tè del primo periodo Edo, ma che secondo Isozaki è invece da assegnare al principe Yakahito (1703-1762), settimo capo della famiglia imperiale Hachijo, che si occupò direttamente del riassetto di varie parti della villa.
Lo scritto di Isozaki, che legittima Katsura come espressione del “gusto Enshu”, ben scritto e convincentemente argomentato, lamenta forse la mancanza di più specifici riferimenti documentari e bibliografici, resi ulteriormente difficoltosi dalle evidenti difficoltà di traduzione dal giapponese alle lingue occidentali. Problema, quello della traduzione, invece ovviato, per le espressioni ricorrenti in questo e negli altri scritti, grazie a un glossario dei nomi, luoghi, e termini traslitterati dal giapponese che conclude il volume. I testi che compongono il libro sono intervallati da una copiosissima documentazione grafica dei rilievi degli edifici della villa imperiale, realizzati a partire dal 1982 e messi a disposizione dall’Imperial Household Agency di Tokyo, alternati alle splendide immagini a colori di Yoshiharu Matsumura.
Queste ultime, oltre a costituire una impagabile documentazione visiva per lo studioso, offrono la piena godibilità del volume anche al lettore meno esperto, dischiudendone la fruibilità a un’ampia platea di pubblico.
Roberto Dulio Architetto