Destino e modernità. Scritti d’arte (1929-1935), Edoardo Persico, Edizioni Medusa, Milano, 2001 (pp. 224, euro 24)
Verso la fine del 1929, Pier Maria Bardi, titolare dell’omonima galleria milanese di via Brera e fondatore del periodico “Belvedere”, chiama a Milano, per dirigere lo spazio espositivo e per collaborare alla rivista, un promettente giovane di origini napoletane: Edoardo Persico.
Persico aveva appena ventinove anni e da due viveva con la moglie a Torino, in una soffitta senza mobili, senza luce, senza riscaldamento: solo un letto, un lucernario e tanti, tantissimi libri.
A Torino Persico era entrato in contatto con l’ambiente artistico che gravitava intorno al pittore Felice Casorati, al collezionista Riccardo Gualino e al critico Lionello Venturi, autore del noto volume Il gusto dei primitivi (in cui ribadisce il valore dell’arte prerinascimentale) e sostenitore del primato dell’arte francese di allora – i nuovi primitivi – sull’arte europea. In quell’entourage, l’intellettuale partenopeo trova l’humus culturale necessario per arricchire la propria conoscenza artistica e per mettere a punto quelle idee che da tempo stava esternando al fratello Renato (rimasto a Napoli) e ai pochi amici con cui corrispondeva (tra questi ricordiamo Piero Gobetti, morto a Parigi nel 1926, e lo storico Carlo Curcio). Queste idee partivano tutte da un denominatore comune: una visione europea e cristiana dell’arte e della cultura.
Persico parlava di Impressionismo, di spiritualità e primitivismo, di religione e trascendenza, di “cose vive” e spontaneità, di libertà del colore e di modularità del tono. Agli amici prestava libri di Maritain, Péguy, Ghéon, del Roseau d’Or e illustrava i capolavori di Rouault, Chagall, Cézanne, Manet… Insomma, Persico parlava una lingua che pochi ancora comprendevano, soprattutto a Milano: enclave del Novecento, città sui cui muri Funi e Sironi andavano dipingendo il loro classicismo, andavano stilando manifesti per una pittura all’insegna del volume, della linea, della forma e del mestiere.
A Milano Persico arriva con le opere del gruppo da lui formato, i Sei di Torino (Enrico Paolucci, Gigi Chessa, Carlo Levi, Francesco Menzio, Jessie Boswell), e dimostra da subito la sua posizione antinovecentista, la sua estraneità a un’arte che non sia “un esercizio di moralità e una passione di vita”. Nel capoluogo lombardo l’impegno che mette nel promuovere queste sue convinzioni si fa sempre più intenso e si concretizza in conferenze, mostre, articoli e saggi che pubblica su importanti riviste e quotidiani milanesi: “L’Ambrosiano” (dove scrive solo dodici articoli, da aprile a ottobre del 1931), “La Casa Bella” (che dal 1933, con Pagano, cambia il nome in Casabella”), “il Belvedere” e “Domus”, per cui comincia a collaborare, su invito dell’architetto Gio Ponti, dal 1934.
Nel suo alveo rientrano scultori come Fontana, Broggini, Manzù, Regina, Melotti e pittori come Birolli, Tomea, Sassu, Spilinbergo, Del Bon, Galante, Spazzapan e, soprattutto, Tullio Garbari, attorno al quale Persico avrebbe voluto veder nascere la scuola di “un’arte moderna riconciliata con Dio”, di una nuova arte sacra, di un’arte capace di ritornare alla semplicità, “alla realtà e alla natura delle cose”. È un sogno che dura poco: Garbari muore nel 1931, mentre Persico, deluso dagli artisti, si dedica sempre di più all’architettura sia dal punto di vista critico (il primo importante saggio sull’argomento è del 1934, “Punto ed a capo per l’Architettura”, e esce proprio su “Domus”), sia come progettista (ne sono un esempio i negozi Parker, che realizza con Nizzoli e la Galleria del Milione, nata sulle ceneri della Galleria Bardi).
Anche in questo campo, Persico prende posizioni scomode (perché contrarie al pensiero comune), ma sempre chiare e indipendenti. Leggiamo, ad esempio, un brano di un suo precoce articolo, “Gli architetti italiani”, uscito su “L’Italia Letteraria” il 6 agosto 1933: “Per noi il razionalismo italiano è morto.
Nato come un bisogno artificioso di novità, o come imitazione dell’estero, non ha mai avuto interesse se non come documento di una inquietudine spirituale che non è riuscita a stabilire con coerenza i termini del problema. All’estero, il razionalismo è stato un movimento fecondo di idee e di esperienze, ed ha rinnovato le basi più profonde del gusto europeo; in Italia, invece, si è perso nella retorica delle polemiche”. Secondo Persico, dunque, il compito del razionalismo italiano, e dell’architettura in genere, non era quello di combattere l’antico per instaurare una ‘oligarchia’ del moderno, piuttosto quello di spingersi fino alle estreme conseguenze, fino all’utopia, senza mai dimenticare, però, che la crisi dell’arte comincia con l’allontanarsi dalla vita.
Persico ha vissuto solo 35 anni (viene ritrovato morto, in circostanze misteriose, nel bagno della sua abitazione una mattina di gennaio del 1936, un mese prima del suo trentaseiesimo compleanno), ma ha lasciato un segno indelebile nell’arte e nell’architettura del secolo appena trascorso. Per comprenderne a fondo l’originalità e l’importanza delle sue idee, è sufficiente leggere i suoi scritti, raccolti ora da Elena Pontiggia in questo elegante volume, e corredati da un testo di Maurizio Cecchetti. Nell’approfondito saggio introduttivo, Elena Pontiggia ne ripercorre, passo dopo passo, tutti gli aspetti filosofici, estetici e critici, mettendone in particolare risalto l’attività di critico d’arte: aspetto, tra tutti quelli della sua attività, meno conosciuto e fino ad ora poco studiato. Dalla lettura delle intense pagine, comunque, esce un intellettuale di immensa cultura, e soprattutto un uomo generoso, tenace, vulcanico, instancabile, di grande spessore morale: ma anche profondamente deluso dell’incapacità di gran parte dei suoi contemporanei di rapportarsi con altrettanta prodigalità alla vita e all’amore. “Fabbricava con le idee: manifesti, tavole, mostre, vetrine, romanzi, polemiche – ricorda Raffaele Carrieri – Le idee erano il suo capitale. Teneva il credito aperto: ognuno poteva approfittarne”.
Lorella Giudici, critico d’arte