Yayoi Kusama nasce il 22 marzo 1929 a Matsumoto, un piccolo paese giapponese rurale e tradizionalista, nella prefettura di Nagano. Nota a livello internazionale e nell’immaginario del grande pubblico per l’uso ripetitivo dei pois, frutto di allucinazioni visive che l’artista cominciò ad avere sin dall’età di dieci anni, e per le sue opere ambientali capaci di evocare spazi infiniti, si è distinta come artista multidisciplinare e avanguardista a partire dagli anni Sessanta spaziando tra pittura, disegno, scultura, performance, installazioni, moda, editoria e scrittura in una varietà di stili, avvicinandosi a Minimalismo, Pop Art, Performance Art, Land Art, Art Brut e Psichedelismo senza per questo riconoscersi in nessuno di questi movimenti ma anzi reinventando continuamente il suo stile. “La gente può chiamarmi diversamente, ma io mi considero un’eretica del mondo dell’arte”, sostiene Kusama.
È l’ultima di quattro figli di una famiglia dell’alta società giapponese dai valori conservatori, impegnata nella coltivazione e nel commercio di semi, in attività di stoccaggio e nel settore immobiliare, uno stile di vita da cui Kusama si sente estranea. La rigida famiglia ha ostacolato l’artista nelle sue espressioni creative sin da bambina, privandola persino degli strumenti per dipingere e disegnare e vietandole di studiare arte: una situazione insostenibile per Kusama, che si definisce ripetutamente un’artista ossessiva.
Creo arte per la guarigione di tutta l’umanità.
Nel cercare di guidarla verso il percorso più convenzionale di una tradizionale casalinga giapponese, la madre ha ostruito, con metodi violenti, il sogno di Kusama di diventare un’artista professionista, mentre il padre è stato poco presente nella sua vita, distratto dalle numerose relazioni extra coniugali. Dopo l’attacco di Pearl Harbor e lo scoppio della seconda guerra mondiale, come altri bambini della sua città in età scolare, è stata chiamata a lavorare fino a dodici ore al giorno in una fabbrica di paracadute, ma nonostante il lavoro punitivo è riuscita a trovare il tempo e le risorse per continuare a disegnare.
Inizia a esporre pubblicamente il suo lavoro in mostre collettive da adolescente e nel 1948, dopo la fine della guerra, convince i suoi genitori a permetterle di studiare pittura alla Kyoto City Specialist School of Arts, specializzandosi nello stile modernista giapponese Nihonga. Continua i suoi studi nella città di Kamakura, ma presto si stanca degli approcci convenzionali dei suoi insegnanti, vedendo riconosciuto il suo talento solo nei primi anni ’50, quando inizia a organizzare mostre personali nella sua città natale.
Un giorno, entrando in una libreria, scopre l’arte di Georgia O’ Keeffe; affascinata dai suoi dipinti, decide di scriverle una lettera. A quella lettera O’Keeffe risponde, consigliandole di andare a New York e far conoscere a più persone possibili il suo lavoro. Sull’entusiasmo di tale suggerimento e alla luce del doloroso conflitto familiare e dell’ambiente soffocante che comprimeva il suo desiderio di diventare un’artista, nel 1957 Kusama decide di trasferirsi negli Stati Uniti. Si dirige prima a Seattle, dove per un breve periodo espone ventisei opere alla galleria di Zoë Dusanne, per poi stabilizzarsi a New York. Al suo arrivo in città, a ventisette anni, ha con sé poche centinaia di dollari e una valigia piena di kimono con cui è convinta di potersi guadagnare da vivere, ma in breve tempo, in quanto donna e giapponese, comprende che l’establishment in città le è ostile – come si evince dall’opera Walking Piece (1966), una serie di fotografie in cui cammina da sola per le vie di New York vestita con un kimono, sfidando la società sessista, maschilista e eurocentrica.
Nonostante le numerose difficoltà nel sostentarsi, il tempismo di Kusama nell’andare oltreoceano è formidabile poiché la città sta cominciando in quel momento ad affermarsi a livello mondiale come capitale dell’arte, a partire dall’Action Painting allora dominante e, dagli anni Sessanta, con la Pop Art e il Minimalismo. Uno dei primi passi verso l’affermazione è l’incontro con Edith Halpert, mercante che alla Downtown Gallery in precedenza aveva lanciato artisti di altissimo livello, tra cui la stessa O’Keeffe, che decide di scommettere sulla giovane giapponese acquistando una delle sue opere.
Nell’ottobre del 1959 apre Obsessional Monochrome, la prima personale newyorkese di Kusama presso la Brata Gallery dove presenta le Infinity Nets, tele di grandi dimensioni sulla cui superficie l’artista dipinge una rete composta da pennellate di pittura densa che formano una maglia forata e anticipano i dipinti minimalisti e monocromatici che da lì a pochi anni godranno di grande fama. A proposito delle Infinity Nets, Kusama afferma: “mettendo insieme le singole particelle quantiche, negativi di gocce quasi impercettibili che costituivano le maglie di una rete, aspiravo a predire l’infinità dello spazio, a misurarla dal punto di vista in cui mi trovavo”.
La gente può chiamarmi diversamente, ma io mi considero un’eretica del mondo dell’arte.
Da questo momento la poetica dell’artista attraversa differenti forme espressive, senza però abbandonare mai l’idea di rete infinita ed esplorando i confini fisici e psicologici della pittura. Diviene una figura centrale nell’avanguardia newyorkese ed espone il suo lavoro accanto a quello di Donald Judd, Claes Oldenburg e Andy Warhol, artisti da lei frequentati e influenzati; il giovane Judd, in qualità di critico d’arte, recensisce il suo lavoro e, come riferito da Kusama, è il primo ad acquisire una sua opera a New York per 200 dollari, pagandola in quattro rate.
In lavori come Air Mail Stickers (1962), una grande tela ricoperta con centinaia di adesivi per posta aerea rossi, bianchi e blu, si comincia a cogliere una sensibilità più vicina alla Pop Art, che trova piena espressione nel linguaggio scultoreo. Le Infinity Nets cominciano a proliferare nello spazio espandendosi al di là della tela su tavoli e sedie, trasformando e sessualizzando oggetti d’uso quotidiano che prendono il nome di Soft Sculptures. Il primo lavoro in tale direzione si intitola Accumulation n.1 (1962) e consiste in una poltrona ricoperta di decine di sporgenze di tessuto imbottito e dipinto a mano. Kusama definisce tale azione una forma di arteterapia compulsiva, capace di contrastare il suo atteggiamento fobico in merito alla sessualità: “la poltrona fittamente ricoperta di falli è il mio lavoro psicosomatico. Li faccio e li faccio e poi continuo a farli, finché non mi cancello nel processo”, spiega l’artista, che nel rimanere costretta tra quelle forme per lei spaventose riesce ad esorcizzare la sua paura, derivante dall’educazione ricevuta.
L’anno successivo, nel dicembre 1963, alla Gertrude Stein Gallery lo sguardo di Warhol viene catturato dall’installazione di Kusama Aggregation: One Thousand Boats Show, una barca di dieci metri interamente ricoperta di falli bianchi imbottiti, corredata da novecentonovantanove fotografie in bianco e nero della stessa imbarcazione, riprodotta più volte sul soffitto e sulle pareti della galleria in pieno “spirito Pop Art”. La scelta di coinvolgere le pareti anticipa inoltre le installazioni che si manifesteranno di lì a poco e che segneranno la fortuna di Kusama nei decenni successivi. È il caso di installazioni quali Infinity Mirror Room – Phalli’s Field (1965), una stanza di specchi riempita con forme di stoffa imbottita ricoperte di pois rossi, all’interno della quale figura anche la giovane Kusama vestita con una tuta rossa, e Love forever (1966-1994), un’ambiente composto da luci elettriche tra loro intermittenti, “ci sono schemi seriali di luci rosse che si affievoliscono e si spengono mentre le luci bianche si accendono e si spengono. Ti fa venire le vertigini”, racconta l’artista.
Ci sono schemi seriali di luci rosse che si affievoliscono e si spengono mentre le luci bianche si accendono e si spengono. Ti fa venire le vertigini.
In parallelo, a partire dal 1965, realizza alcuni happening non autorizzati che richiamano l’attenzione della stampa, connotati da una coscienza sociale e politica sulla scia dell’influenza del movimento hippie, incentrato sul ritorno alla natura, su una più libera sessualità e su un pensiero pacifista contro la guerra in Vietnam. Nascono i Sex Happening e i Body Festival (1967-1971) nei quali la violenza viene contrastata con l’attivismo. Tali performance mettono in scena corpi nudi in pubblico con l’intenzione dichiarata di smontare i limiti dell'identità, della sessualità e del corpo, confini che ha dovuto lei stessa affrontare come artista donna in una società dominata dagli uomini, come giapponese nel mondo dell’arte occidentale e come vittima dei suoi stessi sintomi nevrotici e ossessivi.
La prima performance di Kusama che coinvolge ballerini nudi avviene il 15 ottobre 1968 di fronte alla Borsa di New York. “I soldi guadagnati con questo titolo stanno permettendo alla guerra di continuare. Protestiamo contro questo strumento crudele e avido dell’establishment bellico”, dichiara Kusama. Causando talvolta l’intervento della polizia e alcuni arresti, le manifestazioni non autorizzate avranno luogo in numerosi altri luoghi simbolo della cultura americana: davanti alla Statua della Libertà, a Central Park di fronte alla statua di Alice nel Paese delle Meraviglie e nel giardino delle sculture del Museum of Modern Art di New York, dove Kusama dipingerà dei punti sui corpi dei partecipanti in una performance nella fontana (Grand Orgy to Awaken the Dead, 1969), finendo sul New York Daily News.
Nel 1966 avviene la sua discussa (e non autorizzata) partecipazione alla 33ª Biennale di Venezia dove di fronte al Padiglione Italia espone Narcissus Garden, un’opera composta da millecinquecento sfere argentee di plastica riflettente (pagate dall’amico Lucio Fontana, a causa delle scarse risorse economiche di Kusama) che ricoprono un’area verde allestita con alcuni cartelli con incise le parole “Narcissus Garden, Kusama” e “Your narcisism for Sale”.
Le sfere vengono vendute durante il giorno di apertura della kermesse dalla stessa Kusama per circa 1200 lire l’una, con l’intento di criticare l’anima commerciale del mondo dell’arte e stimolare una riflessione sulla percezione di sé.
Mettendo insieme le singole particelle quantiche, negativi di gocce quasi impercettibili che costituivano le maglie di una rete, aspiravo a predire l’infinità dello spazio, a misurarla dal punto di vista in cui mi trovavo.
Oltre a produrre dipinti, disegni, sculture, happenings e installazioni, negli anni Sessanta Kusama realizza anche alcuni film – Self-Obliteration (1967) ottiene riconoscimenti e premi internazionali – ed estende la sua arte al mondo della moda, creando tessuti e vestiti caratterizzati da fiori e falli cuciti e avviando collaborazioni editoriali. Nel 1969 apre la sua boutique “Kusama Enterprises”, un punto vendita di abbigliamento, borse e persino automobili dall’estetica singolare, caratterizzata da un uso libero di pois e motivi densi ripetuti per creare un senso di infinito, richiamando i motivi delle Infinity Nets.
Nonostante il successo ottenuto nel 1973 Kusama, a causa della sua nevrosi ossessivo-compulsiva, decide di tornare in Giappone. Distaccandosi dal mondo dell’arte occidentale, dal 1977 entra in un ospedale psichiatrico, dove vive e lavora ancora oggi (si sostiene si sia trasferita volontariamente, ma lei afferma il contrario). Negli anni seguenti continua a produrre arte, aggiungendo poesia e narrativa alla gamma di attività creative – The Hustlers Grotto’s of Christopher Street (1984), Between Heaven and Earth (1988) e Violet Obsession (1998). In Giappone la sua poetica assume un aspetto formale più strutturato grazie alla combinazione di diverse forme, utilizzando materiali totalmente nuovi pensati per rendere i lavori più durevoli nel tempo.
Negli anni Ottanta e Novanta Kusama raggiunge ufficialmente la fama internazionale. Nel 1993 rappresenta il Padiglione Giappone alla Biennale di Venezia, dove presenta numerosi lavori tra cui l’installazione Mirror Room (Pumpkin) (1991), un’abbagliante sala degli specchi di color arancione a puntini neri, che ospita all’interno le iconiche zucche, alter ego dell’artista. A partire da queste esperienze, le Infinity Mirrored Rooms, installazioni immersive composte solitamente da una stanza a specchi con centinaia di luci e riflessi colorati, diventano un fenomeno globale tra gli anni 2000 e 2010.
In opere come Infinity Mirrored Room – Filled with Brilliance of Life (2011), Chandelier of Grief (2016-18) o Obliteration Room (2002-2012) luci LED, lampadari di cristallo o stickers a forma di pois si ripetono all’infinito, frammentano il corpo dei visitatori creando un effetto di replica incessante, traslando nella realtà fisica i motivi ossessivi dei primi lavori. Tali installazioni giungono alla conoscenza del grande pubblico in occasione delle grandi mostre retrospettive dedicate all’artista in musei internazionali quali il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, il Centre Pompidou di Parigi, la Tate Modern di Londra e Whitney Museum of American Art di New York.
L’aumento della sua fama si deve anche ad alcune collaborazioni con le industrie creative, come quella nel 1994 con Peter Gabriel dei Genesis per il brano Lovetown in cui le sue ossessioni finiscono nel mondo ipertrofico del videoclip della canzone. Nel 2012, inoltre, l’artista si spinge oltre i suoi linguaggi abituali, progettando non solo un’intera capsule collection in collaborazione con il brand Louis Vuitton, su invito di Marc Jacobs, ma gli interni stessi della boutique di New York che ha ospitato il progetto speciale (presentato sulla 5th Avenue, in concomitanza con la sua mostra personale al Whitney Museum). “I più bei negozi di moda che io abbia mai visto negli ultimi vent’anni li ha fatti lei”, racconta Italo Rota (Domus, n. 1014, giugno 2017). Dai capi d’abbigliamento a una linea di borse e piccola pelletteria, fino ad arrivare ai display e alla progettazione vetrinistica, Kusama ha realizzato oggetti e componenti dai colori sgargianti e macro texture: fiori, pois, zucche e connessioni neurali rigorosamente puntinate, iconografie tipiche dei suoi lavori più maturi.
Nell’ottobre 2017 apre a Tokyo, nel quartiere di Shinjuku vicino al suo studio e all’ospedale psichiatrico in cui vive, il Yayoi Kusama Museum che ospita la sua collezione permanente, oltre ad alcune installazioni immersive. Nonostante Kusama sia ormai giunta alla sua nona decade, lavora alle sue opere quasi quotidianamente. Tra i suoi programmi per il futuro, c’è un solo desiderio: la volontà di fare arte fino al giorno della sua morte. “Creo arte per la guarigione di tutta l’umanità”.
Immagine in apertura: Yayoi Kusama seduta davanti alle sue opere – Tate Modern, 2012