Esponente di punta della grafica modernista, traghettatore del design italiano negli Stati Uniti, ma anche progettista con la moglie Lella di arredi, prodotti e allestimenti che hanno segnato indelebilmente la cultura del design mondiale.
Massimo Vignelli
“Ci piace che il design sia visivamente potente, intellettualmente elegante e soprattutto senza tempo”.
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L’opera di Massimo Vignelli (Milano, 1931 – New York, 2014) è stata spesso ricondotta ai suoi meriti nel campo della grafica, che gli hanno valso, accanto ai più alti onori istituzionali, il plauso incondizionato degli addetti ai lavori come esponente di punta di un segno modernista elegante e senza tempo. Eppure, se c’è un presupposto che questo milanese naturalizzato americano non ha mai smesso di predicare è per l’appunto l’unitarietà della disciplina, scandito nel mantra, semplice quanto definitivo, che più di ogni altro ne ha definito l’attitudine e il pensiero: “se sai progettare una cosa, puoi progettare qualunque cosa.” Anche in tempo di complessità e specializzazioni crescenti, il design per Vignelli – o meglio dovremmo dire per i Vignelli, ricordando la figura imprescindibile della moglie Lella, che di Massimo fu socia e complice in un’infinità di progetti – è sempre rimasto un’attività di problem solving da applicare su un’ampia scala di prodotti - mobili, allestimenti, complementi per la tavola, oltre alle numerose identità visive - coniugando in un linguaggio coerente efficacia formale ed umiltà progettuale.
Non basta che qualcosa - una sedia, una mostra, un libro, una rivista - abbia un bell'aspetto e sia ben progettato. Il "perché" e il "come", il processo stesso del design, devono essere ugualmente evidenti e al di là della tirannia del gusto individuale
Nel corso della lunghissima carriera, Vignelli non sembra avere indossato altro che i panni del designer, lavorando in maniera indefessa e senza mai disattendere un vero e proprio codice etico che, cristallizzato in diversi libri e manifesti, è rimasto la spina dorsale, il filo rosso di tutto il suo operato. Ancora ragazzo, si affaccia alla pratica professionale nello studio dei fratelli Castiglioni, per poi continuare durante gli anni universitari passati tra Milano e Venezia come apprendista nei più importanti studi di architettura. Ed è proprio in laguna, più precisamente da Venini, che muove i primi passi in autonomia, firmando lampade e oggetti per la tavola che segnano l’inizio di una lunga sperimentazione con il vetro e il metallo. Ma sarà negli Stati Uniti, tra Chicago, la California e soprattutto New York, che Massimo Vignelli conquisterà una indiscussa visibilità a partire dal 1957 (con un breve intervallo nei primi anni ’60, trascorso a Milano), trasformandosi in un apripista per la cultura progettuale italiana in America. Un paese, gli Stati Uniti del secondo dopoguerra, di cui Vignelli ha saputo cogliere le opportunità offerte dalla risonanza globale delle grandi corporation, ma dove ha anche trovato le condizioni per affermare l’ideale di un design d’impatto, dalle ampie ricadute, lontano da provincialismi o vezzi di nicchia.
In Milano il soffitto era troppo basso; sono venuto a New York pensando che il soffitto fosse alto, e ho scoperto che a New York il soffitto non esiste
Attivo dal 1965 con Unimark International, agenzia internazionale con undici sedi in cinque paesi fondata insieme a Ralph Eckerstrom, Bob Noorda, James Fogelman, Wally Gutches, e Larry Klein, se ne distaccherà nel 1971 per supposte divergenze su una linea troppo prona ai diktat del marketing. Ne seguirà, questa volta insieme a Lella, l’avventura di Vignelli Associates (poi Vignelli Designs), conclusasi con l’apertura del Vignelli Center for Design Studies nel 2010 presso il Rochester Institute of Technology di New York, dove è oggi custodita la totalità dei loro archivi.
Immagine di Michael Cory
Dei tanti progetti, sono molti quelli che possono essere considerati delle vere e proprie icone del Novecento grazie alla straordinaria longevità di un’eleganza essenziale e accessibile, lontana da ogni istinto manierista. Progettata nel 1967, l’identità visiva di American Airlines – due "A" affiancate, una rossa e una blu, in mezzo il pittogramma di un’aquila - è rimasta in auge fino al 2013, sostituita da un restyling che ha fatto presto rimpiangere l’originale. La comunicazione di Knoll International, definita dallo stesso Vignelli tra i suoi progetti più riusciti, si estenderà dal 1966 fino alla fine degli anni ‘80 tra poster, brochure, cataloghi di esposizioni e persino una sedia, la Handkerchief, del 1987. In un portfolio che include nomi importanti quali Ford, IBM, ma anche allestimenti, showroom (per Artemide, Poltrona Frau) e persino gli interni di una chiesa, la Saint Peter’s Church di New York, rimane anche la lunga collaborazione con Heller, per cui Vignelli ha progettato negli anni collezioni di tableware in melamina e relativi packaging, aggiudicandosi un Compasso d’oro ed entrando nella collezione del MOMA di New York.
Eppure, sarà probabilmente la mappa della metropolitana di New York realizzata durante gli anni di Unimark – “un diagramma più che una mappa”, terrà a precisare Vignelli - il progetto più noto, anche a seguito del dibattito e delle critiche che ne seguirono. Ispirata alla mappa della metropolitana di Londra del 1931 di Harry Beck e al suo sistema di rappresentazione dei percorsi con angoli di 45° e 90°, la NYC Transit map del 1972 si distinse per l’astrazione geometrica con cui veniva sintetizzato l’intricato labirinto della subway newyorkese: ogni linea è rappresentata con un colore, ogni stazione con un punto, senza riferimenti topografici e senza una restituzione in scala delle dimensioni della città. La mappa trovò però un’opposizione crescente nei suoi utilizzatori, che faticavano a ritrovarvisi giudicandola fuorviante. Abbandonata nel 1979, è rimasta un fenomeno di culto per generazioni di grafici, che continueranno ad apprezzarne la purezza formale insieme all’utilizzo del carattere Standard, vicinissimo all’Helvetica Medium, che accompagnava la segnaletica (progettata con Bob Noorda, allora reduce dall’esperienza della metro milanese).
Il legame professionale con l’Italia, ad ogni modo, non si spezzerà mai, ed andrà anzi intensificandosi verso la fine della sua carriera. Della parentesi italiana dei primi anni Sessanta rimangono progetti che del “canone Vignelli” rappresentano le fondamenta, tra cui la grafica “svizzera” per il Piccolo di Milano (1964) – la prima ad introdurre l’Helvetica, font prediletto da Vignelli insieme al Bodoni - ma anche il divano Saratoga per Poltronova (1964), soluzione built-in che affianca contenitori alla morbidezza anche visiva dell’imbottito. Successivamente, si farà ricordare restyling del logo di Lancia (1978), il redesign del TG di Rai2 (1988), che includerà il logo e gli studi con la fiammante poltrona rossa disegnata per l’occasione per Poltrona Frau, ma anche la corporate identity del Cosmit (1994, Compasso d’Oro nel 1998), di United Colors of Benetton e Sisley (1995), di Ducati (1998), fino alla segnaletica delle Ferrovie dello Stato firmata nel 1999.
Proprio sulle pagine di Domus, Vignelli pubblicò nel maggio del 2014, nel mese della sua scomparsa, un accorato tributo alla figura e ai meriti della moglie Lella, all’epoca già malata. Commentando il lavoro svolto insieme nell’arco di mezzo secolo, precisò che “il prodotto finito ha sempre manifestato la reciprocità con cui abbiamo capito e affrontato i problemi progettuali”, sottolineando così quanto il contributo di Lella, al pari di tante professioniste di sesso femminile, fosse sempre stato ingiustamente sottostimato. Una precoce – se guardiamo al dibattito dell’oggi - forma di riconoscimento, espressione di un’etica pubblica e privata che restituisce ancora più profondità e universalità all’insieme dei loro lavori.
Nelle parole di Michael Bierut:
Ho imparato veramente moltissimo da Massimo su come essere un buon designer. Ma ho imparato come essere un designer di successo da Lella
- John Madere