Foto di apertura: Daniel Libeskind. Foto Len Grant
Daniel Libeskind
«So che qualcosa deve essere costruito in qualche materiale. Userò cemento armato e ho tutti i miei tavoli da disegno, con tutti i tipi di campioni di materiale che posso usare. Ma penso che non sia la sostanza dell’architettura. L’architettura è fatta di qualcos’altro. La sua sostanza è misteriosa […]. È vero, misteriosa. Quando veramente ci sei dentro e provi a farla, a pensare che cosa puoi costruirci con lei, come la farai, che cosa ci andrà dentro. E allora penso a come riconciliare la strumentalità tecnologica con un desiderio non ragionevole. Questo è l’esito che deve confrontare il fare architettura» (Daniel Libeskind, 1983)
Daniel Libeskind nasce a Lodz, in Polonia, nel 1943. Trasferitosi in Israele, Paese in cui si dedica allo studio della musica, si sposta prima negli Stati Uniti, dove consegue la laurea in architettura presso la Cooper Union nel 1970, dopo aver frequentato corsi tenuti da John Hejduk e Peter Eisenman, e in seguito in Inghilterra, dove ottiene una specializzazione in storia e filosofia presso la Essex University. È considerato uno dei più importanti esponenti contemporanei dell’architettura decostruttivista, ruolo che gli è stato riconosciuto da Philip Johnson in occasione della mostra “Deconstructivist architecture”, svoltasi al Museum of Modern Art di New York.
I primi anni della sua attività professionale sono dedicati principalmente a studi ed esperienze didattiche: dal 1978 al 1985 insegna alla Cranbrook Academy of Art di Bloomfield Hills, nel Michigan, e nel 1986 fonda a Milano il laboratorio didattico sperimentale "Architecture Intermundium”, che dirige fino al 1989 divenendo amico e collaboratore di Aldo Rossi.
Tra le numerose mete toccate in questi anni, Como (dove approfondisce la lezione di Giuseppe Terragni, cui dedica un corso estivo nel 1988), New York, Londra, Venezia. Nella città lagunare partecipa alla XVII Biennale (1985), con un progetto per la pianificazione e la razionalizzazione degli spazi domestici contemporanei, a partire da modelli ottocenteschi, riassunti nell’installazione “House without walls”: una casa senza muri, in cui l’ambiente per vivere il quotidiano è ottenuto dall’assemblaggio di linee e vuoti dall’andamento irregolare, frammentato, divenuti tratto caratteristico della sua poetica. Vuoti e linee che per Libeskind sono il riflesso delle ragioni dell’esistenza umana.
il problema è quello della creazione dell’ordine e il riconoscimento dell’ordine è legato alla visione estetico-morale della società. Lo spazio è così il sogno di una morale tracciata dalla civica obbedienza
Concetti in parte già espressi, nel 1983, tra le pagine della sua prima pubblicazione, intitolata “Between Zero and Infinity”, in cui l’architetto di origini polacche propone un’idea di architettura slegata dal tempo e tendente a dissolversi nello spazio.
Attraverso un testo che è una vera e propria opera di graphic design, composta di pagine in cui si susseguono fotomontaggi pittorici e disegni che tracciano l’immaginaria mappa dell’esperienza architettonica - presentata attraverso quattro modelli: la “Casa-luce solidificata”, la “Casa con profili distaccati”, l’”Esemplare riduzione di una casa sotto il segno del tempo” e “Rebus 2” - forse ispirati ad alcune teorie costruttiviste. Proprio al Costruttivismo è dedicata una famosa mostra curata da Libeskind nel 1988, poco prima di ottenere, in maniera quasi del tutto inaspettata, la vittoria al concorso internazionale promosso dall’IBA per il celeberrimo ampliamento del Jüdisches Museum di Berlino, in cui due linee – una spezzata lunga circa centoquaranta metri e l’altra diritta e con sezione costante di ventidue metri – s’incrociano in più punti a formare vuoti architettonici, spazi inaccessibili ma comunque chiaramente percepibili dal visitatore, che simboleggiano l’assenza degli ebrei berlinesi sterminati con l’Olocausto.
Stretti passaggi, più simili a impervi cunicoli che a corridoi di un edificio pubblico, improvvisi cambi di materiale, che generano una vasta gamma di sensazioni tattili, pareti e travi inclinate che sembrano abbattersi sul pubblico, lo studio dell’acustica e persino la privazione del comfort climatico in determinate aree dell’edificio contribuiscono a trasformare il museo in un’architettura dell’esperienza, in cui l’invisibile – cioè la tragicità della condizione vissuta dagli ebrei negli anni del Nazismo – si fa materia.
Sull’intersezione di due o più linee si basano molti dei progetti successivi al fortunatissimo esempio berlinese: tra questi, la piccola galleria dedicata a Felix Nussbaum a Osnabrück (1998), la Filarmonica di Brema e la sede della JVC University. Quest’ultima è immaginata come raffigurazione degli intrecci tra logica, astronomia, matematica e geometria – da un lato – e tra fegato, cuore, spina dorsale e cervello dall’altro: ciascuna di queste entità prende forma in singoli edifici, assemblati intorno al vuoto del “Giardino della conoscenza”.
Attorno a linee, stavolta immaginarie, Libeskind costruisce anche l’ampliamento del Victoria and Albert Museum: una spirale derivata dallo studio della celebre torre metallica di Vladimir Evgrafovič Tatlin per il Monumento alla III Internazionale Socialista (1919), che raffigura – dice Libeskind – “l’eterna spirale di arte e storia” e che collega tra loro, mediante ponti sospesi e passaggi interrati, i tre blocchi già esistenti del museo. Realizzata attraverso un muro continuo che definisce gli spazi interni (di sviluppo metrico pari alla lunghezza dei muri perimetrali delle preesistenze storiche del Victoria and Albert Museum), anche questa spirale ha però un andamento frammentato dall’intersezione con un asse verticale immaginario, che in pianta genera una vasta gamma di superfici regolate da una divisione frattale interna, il cui ritmo è basato sul ricorso alla sezione aurea. Il muro continuo, che è al contempo elemento di chiusura verticale e supporto strutturale, è realizzato ricorrendo a eterogenei materiali: dal calcestruzzo del piano terra, alle pareti in pasta vetrosa della sommità. In questo complesso sviluppo spaziale – scrive Libeskind:
i visitatori sono rispettati non essendo trattati come particelle mobili in uno spazio neutrale o come passeggeri passivi del passato, ma come partecipanti a un’esperienza viscerale, intellettuale e spirituale, una continua scoperta del non svelato dramma dell’arte e della sua storia
Il tema della linea è centrale anche in un corposo gruppo di riflessioni sulla città che Libeskind inizia nel 1989, con i progetti denominati Multilayers Planning Process (MLPP): la realtà urbana è vista, in contrapposizione all’insieme di blocchi funzionali tra loro separati che erano alla base dell’urbanistica razionalista, come costruzione di teorie poggiate sui concetti di senso e creatività collettiva. Ne sono esempio i progetti elaborati per il concorso di Alexanderplatz (poi vinto da Renzo Piano) e quello per Lansbergalle (1995) a Berlino. Il primo è uno schema formulato intorno alla riscoperta della memoria di edifici esistenti, di cui viene mutata la forma e che sono inseriti in un parco lineare, che li tratta alla stregua di rovine dell’ideologia nazista che li ha prodotti; il secondo è il disegno, attraverso nuovi edifici a destinazione residenziale, di una maglia flessibile, frammentaria e curva che determina sia la forma e la qualità degli spazi pubblici, sia la matrice aperta di quelli desinati all’abitazione.
Tra le opere più recenti di Libeskind, si segnalano l’ampliamento dell'Art Museum di Denver, portato a termine nel 2006; quello del Royal Ontario Museum a Toronto, ispirato dalla collezione di minerali ospitata dal museo stesso; il Gran Canal Theatre di Dublino (2010) e il Wheel of Conscience Monument di Halifax, in Canada (2011), scultura destinata a ricordare la responsabilità del Paese durante la Shoah. Si è inoltre aggiudicato il progetto di ricostruzione dell'area in cui sorgevano le Twin Towers, a New York, e – nel nostro Paese – il concorso per la riqualificazione dell’area della Fiera di Milano (in collaborazione con gli studi di Arata Isozaki e Zaha Hadid, in corso di realizzazione).
Attraverso le parole di Attilio Terragni:
Per Libeskind l’architettura è una traccia dell’oltre espressa in forme compiute e unitarie. È una tattica cui affidare l’espressione del reale e dell’invisibile (e quindi implicitamente una loro critica)
- 1943–in vita
- Architetto, designer, artista