Avevano ragione James G. Ballard, Philip K. Dick e Kurt Vonnegut quando immaginavano battaglie tra uomini e robot, ribellioni metalliche e nature artificiali. Le loro veggenze letterarie sono l’archetipo radicale con cui soppesare la realtà attorno a noi, in bilico tra differenze e somiglianze, con una fantasia romanzesca che talvolta ha ingigantito, altre volte sottovalutato le derive del progresso instabile. Mi viene in mente Andrew Niccol (Gattaca, Simone, Timeless), autore di un cinema dove uomo e macchina si fondono con ibridazioni invisibili, spostando gli umani sulla soglia robotica e gli spazi abitabili sulle geometrie a misura di comunità.
Gli esterni di Gattaca sono un giusto raccordo verso il mondo fotografico di Carlo D’Orta. Un richiamo senza didascalismi formali, più legato al processo organico del post-razionalismo: come se geometrie, angoli retti, linee e modularità respirassero un ossigeno autogenerato, frutto di una circolazione periferica che esprime un valore biologico nella chimica degli elementi architettonici.
Carlo D’Orta è un “biologo” del paesaggio contemporaneo, un ricercatore sottocutaneo che scava sotto il primo strato dell’apparenza urbana, dove le strutture diventano sinapsi architettoniche, dove i macroelementi richiamano il micromondo cellulare. Il suo occhio ragiona con un principio scientifico e un’attitudine pittorica, secondo equilibri complessi mai automatici, sul filo di una razionalità che interpreta i codici del reale, scovando l’ambiguità praticabile tra figurazione e astrattismi.
Principio scientifico, ovvero, analisi degli elementi.
Attitudine pittorica, ovvero, qualità e tensione del racconto fotografico.
La maturità del digitale sta riscrivendo la filiera che unisce l’inquadratura alla diffusione finale dell’immagine, passando per usi e contaminazioni che hanno reso la Fotografia il più complesso, paradossale e controverso dei linguaggi attuali. I nuovi mezzi hanno ridotto la distanza tra utente generico e qualità esecutiva, così come la velocità del digitale ha mitigato l’aura del rullino coi suoi tempi di sviluppo e stampa. Al contempo, la facilità d’uso sta evidenziando il valore della resistenza iconografica, un’ideale zona per eccellenze visuali, abitata dai fotografi che alla competenza tecnica uniscono la sapienza dello sguardo, oltre ad una conoscenza sensibile per tecniche di stampa, carte e strumenti con radici meccaniche. D’Orta mi piace immaginarlo in questa riserva figurativa per anime speciali, nel pianeta dei fotopittori più raffinati ma anche più curiosi, privi di chiusure e preconcetti, nipoti della meccanica e figli del digitale, con un occhio nella memoria e un occhio nella ricerca.
Si scorge una felice corrispondenza tra la biologia del paesaggio e la biologia del linguaggio fotografico. Due momenti che D’Orta incastra in maniera empatica: da un lato la selezione di architetture specifiche, scelte per quel loro carattere biodinamico, per la vertigine cromatica che le completa, per il cuore pittorico che le anima; da un altro la ricerca di nuovi sviluppi fotografici, organica rispetto alla filologia del mezzo, generatrice di richiami e combinazioni, con passato e futuro su una direttrice che addiziona senza annullare.
Il suo recente lavoro (RE)FINEART, per esempio, modifica la realtà industriale con un’interpretazione dal cuore pittorico, cambiando minimi dettagli, contrastando con liturgia poetica, riperimetrando singoli frangenti. Lo spunto sono i luoghi dell’industria pesante (petrolio, chimica, acciaio), plasmati da una funzionalità estetica che ha agito sul nostro immaginario e sulla vita del terziario postindustriale. D’Orta è partito da qui e ha scelto una raffineria petrolifera in Austria, diventandone interprete visivo senza moralismi, senza piglio da reporter ma con approccio “impressionista”, così da reinventare il realismo, ridefinendolo, appunto, con spostamenti minimi ma indicativi. Il cardine è sempre nel dettaglio autonomo, nella capacità di isolare frammenti industriali e renderli un campo iconografico, una matrice estetica che ragiona con piglio metafisico e assolutezza semantica.
La città contemporanea deve molto al contributo visionario di pittori e fotografi che captano l’anima segreta del mezzo, modellando profili visuali che ampliano lo sguardo sul presente. Se però il quadro pittorico sembra spingere verso l’interno, la stampa fotografica offre la sensazione di un corpo che chiede spazio verso l’esterno. Da qualche tempo ci si domandava cosa fare dell’implicita richiesta di una tridimensionalità fotografica: qualcuno (Antonello & Montesi) ha ideato un software per sviluppare tecniche di scatto in 3D, così da stampare immagini che attraverso speciali occhialetti si trasformano in corpi mobili; Carlo D’Orta ha invece agito sulla natura primaria della foto, creando un doppio scultoreo che scompone e ricompone la stampa. La sua idea è una perfetta equazione: i volumi netti si frammentano per sdoppiamento tramite lastre sagomate, così da smontare la foto in un processo installativo dalle molteplici soluzioni. Una sorta di chiusura del cerchio teorico davanti al cortocircuito del reale, un passaggio che apre verso margini ambiziosi e ricchi di sorprese. Gianluca Marziani, Direttore del Museo di Arte Contemporanea-Palazzo Collicola di Spoleto (Perugia)
Le immagini di Carlo D'Orta, tratte dalle nuove serie Biocities e (Re)FineArt, e 3 installazioni del ciclo (S)Composizioni, sono in mostra presso Palazzo Collicola Arti Visive di Spoleto (Perugia) fino al 26 maggio 2013.