Leonardo Caffo

Ecologia. Fine della retorica, invito alla realtà

Il filosofo e saggista catanese riflette sulle risposte date dai progettisti contemporanei a ciò che definisce il “business della crisi ambientale”.

Sostenibile è ciò che può essere tenuto senza che il peso dell’oggetto che reggiamo ci schiacci. Normalmente usiamo questa definizione come sinonimo di ecologico, senza pensare che in realtà sottende un atteggiamento proposizionale: “Che io possa sopravvivere al peso del mondo”.

Oggi, ovviamente, questo peso è rappresentato dalla paventata crisi ambientale, un mostro che è diventato anche un business del progetto e che si declina in ecodesign, urbanistica verde, studio di nuovi materiali. Si vedono progetti che non affrontano in nessun modo il problema reale ma che, appunto, lo ‘usano’ e fanno venire in mente quella famosa frase gridata a Robespierre dai nemici suoi e della Rivoluzione in una piazza gremita: “Ma ti dispiacerebbe se non ci fossimo più!” [1].

Si ha l’impressione che ci sia quasi un interesse paradossale a una non risoluzione concreta del problema.

Non si chiama in causa l’etica per dare soddisfazione ai consumatori, ma per eliminare il dolore o i problemi dei consumati

La mia non vuole essere una critica sterile. Ovviamente, l’attenzione riservata dai progettisti ai temi ambientali è un fattore importante, ma non sempre gli corrisponde una soluzione efficace. La crisi ecologica, se per ecologia intendiamo ciò che intendeva, sulla scia del pensiero di Ernst Haeckel, Gilles Clément – “ciò che esiste nel ‘tra’ delle cose” [2]– impatta direttamente sulla vita quotidiana di tutti gli abitanti del Pianeta: se per noi occidentali può avere solo l’aspetto del clima torrenziale che ha trasformato le estati delle nostre città nordeuropee in Africa o in molta parte dell’Oriente, può coincidere anche con le migrazioni che stupidamente cerchiamo di arginare come se fossimo nell’Ottocento.

Mi preme dare attenzione alla dimensione non efficace di molto progetto contemporaneo perché, come sappiamo, l’etica sistemica, dunque non quella che riguarda le scelte individuali ma la volontà di cambiamento strutturale di una società o di uno stato di cose, acquista senso solo quando riesce a superare il problema dell’effetto soglia. La domanda che regola il mercato che contribuisce a rendere meno sostenibile l’ecosistema globale – dalla produzione petrolifera all’industria della mobilità aerea, fino all’urbanistica non attenta all’ambiente –, con tutti gli annessi e connessi, potrebbe in teoria essere scalfita soltanto da un 50% più uno (ecco l’“effetto soglia”) che si rifiutasse di partecipare ad alimentarla economicamente.

Illustrazione di Francesca Bazzurro
Illustrazione di Francesca Bazzurro. Courtesy of Galleria l’Affiche, Milano

Diventare sostenibili per salvare davvero il pianeta avrebbe senso se, e solo se, fossimo quel “più uno” in grado di spostare l’asse dei consumi. La sostenibilità, in questo caso, non sarebbe altro che un obbligo condizionato da una conseguenza di cui però non abbiamo nessuna certezza. Un obbligo che costringerebbe a cambiare stile di vita soltanto se avessimo la sicurezza di raggiungere questa stessa conseguenza [3] (superare la soglia): dunque assistiamo alla generazione di uno stallo. Si potrebbe obiettare: la rinnovata e crescente offerta di alternative sostenibili non è connessa all’impatto reale delle scelte dei singoli? Certo, l’azione del singolo incide (pochissimo) sul mercato, ma non incide sull’equilibrio generale del pianeta che vorremmo salvare. Non si sceglie la sostenibilità per saturare un proprio bisogno, ma un bisogno altrui. Non si chiama in causa l’etica per dare soddisfazione ai consumatori, ma per eliminare il dolore o i problemi dei consumati. Per capire fino in fondo la questione è necessario passare da qui, dall’idea che una cosa possa essere sensata anche quando non è utile, anzi, come nel caso della sostenibilità, persino difficile, noiosa e a tratti ghettizzante (girare in bici, cambiare alimentazione, chiudere i centri città al traffico, o altro ancora).

Allo stato attuale delle cose, progettare la vita quotidiana o l’architettura e il design sotto la matrice della sostenibilità ha un valore perlopiù simbolico, come ammette lo stesso Stefano Boeri che pure ha concentrato molta della sua recente attività sull’architettura green. Siamo all’interno di quella che non è niente di più che una retorica [4]. Basta pensare che il Bosco verticale in Porta Nuova a Milano in un anno assorbe quasi 25 tonnellate di CO2 e produce circa 60 kg di ossigeno al giorno, mentre un volo di andata e ritorno da New York all’Europa crea un effetto di riscaldamento equivalente a 2 o 3 tonnellate di anidride carbonica a persona, quindi più che annullando l’effetto benefico del Bosco sul CO2. Se è vero che la sostenibilità esiste per resistere al peso del mondo che crolla allora, per adesso, non stiamo in nessun modo scalfendo quell’effetto soglia di cui parlavo.

Allo stato attuale delle cose, progettare la vita quotidiana o l’architettura e il design sotto la matrice della sostenibilità ha un valore perlopiù simbolico

Ovviamente potremmo dire: intanto ne stiamo parlando. Non è un caso che il tema della XXII Triennale 2019, curata da Paola Antonelli del MoMA di New York, sia la fragilità della natura. Eppure, i dati attuali forniti dalla scienza dicono che il tempo delle discussioni è scaduto e l’energia complessiva del Pianeta non è in difficoltà, ma in deflazione. Se davvero vogliamo affrontare la sostenibilità come un tema concreto per la vita quotidiana e per il progetto dobbiamo sforzarci di abbandonare retorica e simbolismo per passare rapidamente a soluzioni che siano efficaci nel modo in cui ne parla la filosofia contemporanea – Peter Singer, per esempio [5] – dove l’efficacia si misura con l’impatto reale che i nostri progetti possono avere su questo mondo.

Il mio è un invito alla trasformazione del progetto dalla dimensione simbolica che potevamo permetterci (forse) all’epoca di Superstudio e delle architetture radicali, alla dimensione, concreta, di cambiamento effettivo del nostro rapporto con il non-umano, con l’ambiente, con gli ecosistemi. Scalfire l’effetto soglia abbandonando la retorica significa, purtroppo, mettere in discussione molti dei privilegi che abbiamo acquisito fino a quando la progettazione è stata ancorata all’antropocentrismo. Immagino un progetto di sottrazione del peso dell’uomo del mondo, un progetto che sia sostenibile perché agisce, appunto, sulla diminuzione della massa del peso da portarci e non sulla solidificazione della struttura che questo peso dovrà reggere.

Il futuro ha l’aspetto di una capanna, non di un grattacielo. Prima lo capiamo, prima avrà senso sperare che da una situazione in cui tutti sembriamo in pericolo, tutti potremo all’improvviso salvarci.

Illustrazione di copertina Francesca Bazzurro (courtesy of Galleria l’Affiche, Milano)

1:
Leonardo Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989, p. 101.
2:
Gilles Clément, L’alternativa ambiente, Quodlibet, Macerata 2015.
3:
Ho affrontato diffusamente questo problema paradossale dell’etica radicale nel mio Vegan. Manifesto filosofico, Einaudi, Torino 2018.
4:
Leonardo Caffo, Stefano Boeri, No Church in the Wild: costruire mondi senza gerarchie, in Vegan Italy, n.3 novembre 2015, pp. 18 - 22.
5:
Peter Singer, The Most Good You Can Do, Yale University Press, New Haven, Connecticut 2015.

Questo articolo è stato pubblicato in origine sul numero speciale EcoWorld, in allegato a Domus 1027, settembre 2018

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