La disuguaglianza ha un peso diretto sulla sostenibilità. Senza uguaglianza non ci sono città sostenibili. Se vogliamo una città sostenibile lo Stato deve avere un ruolo maggiore nell’ambito della pianificazione. La realizzazione della città sostenibile non può essere lasciata al settore privato. Oggi l’immagine della città che si va affermando è quella di un paesaggio di capitalismo impaziente in cui la città rende facilmente disponibile il proprio territorio per attrarre capitali, che sono intrinsecamente impazienti e devono realizzare profitto manifestandosi attraverso delle costruzioni: Dubai e Shanghai sotto questo aspetto sono casi classici.
Li chiamo architettura e paesaggi del capitale impaziente, perché ora il capitale, attraverso la globalizzazione, può arrivare ovunque e manifestarsi in forme prevedibili e familiari. In alcuni punti arriva più facilmente, perché c'è meno attrito, in altri luoghi c’è più attrito che si traduce in formazioni ibride. Il risultato è un'architettura che spesso non ha nulla a che fare con il luogo, non ha a che fare con i normali parametri con cui differenziamo le nostre città, in termini di materiali e culture locali e specifiche che producono una particolare forma di città.
Se dovessi citare una città in cui si è trovato un punto di equilibrio con la disuguaglianza indicherei Medellín, in Colombia. Dimostra una grande capacità di gestione nel modo in cui integra i poveri nel sistema tramite l’organizzazione dei trasporti, e lo Stato ha investito molto negli spazi pubblici e nelle istituzioni pubbliche per integrare questa nuova mobilità. Ciò che guiderà l’evoluzione della città nel futuro è la sostenibilità in materia di acqua, alimenti ed energia, tutto armonizzato tramite una robusta articolazione di forme d’insediamento adeguate. Credo che la forma dell’architettura di per sé sarà l’esigenza meno importante.
La motivazione più importante per cui le persone si trasferiscono in città o si spostano tra una città e l’altra è il lavoro, o il sostentamento necessario a sopravvivere. Se la città riesce a rendere disponibile il lavoro ha una maggior probabilità di essere una città dell’uguaglianza. I servizi vengono di conseguenza. Ma la base economica è un prerequisito.
Sono in corso molti cambiamenti e cambiamenti nella democrazia in tutto il mondo, il che significa che oltre ai rifugiati che stanno andando in Europa, in posti come l’Asia meridionale, la Cina e altre parti dell’Asia, il movimento di persone tra le campagne e verso la città, dalle piccole città alle grandi città, dalle grandi città ad altri luoghi, è sempre stata un fenomeno presente e persistente.
Il concetto di flusso e la dinamica demografica mettono alla prova il concetto di appartenenza alla città. L’appartenenza alla città non è un attributo stabile come un tempo. Io penso che appartenenza alla città significhi disponibilità di servizi. La mancanza di accesso ai servizi e la disparità della loro distribuzione creano disuguaglianza. L’appartenenza alla città, nel senso di partecipazione condivisa alla città, non sarà più così cruciale. Far parte della società civile di una città significa partecipare attivamente alla formazione dei concetti che danno forma, influenzano e creano la forma della città e dei relativi insediamenti. Oggi si vive in più quartieri, contemporaneamente fisici e virtuali. Il che si collega al concetto di appartenenza alla città perché, così come i quartieri sono formulati secondo molteplici schemi in cui si esiste simultaneamente, lo stesso concetto di appartenenza alla città va soggetto ad analoghi, mutevoli collegamenti reciproci.
Il concreto sviluppo dell’urbanistica e dell’architettura è segno di benessere. È presuntuoso pensare che l’architettura possa realizzare una trasformazione della città senza che la società faccia prima i conti con le questioni fondamentali dell’abitazione e del sostentamento. Sono questioni politiche. L’architettura può contribuire ad articolare e a esprimere problemi come l’accessibilità al pubblico degli spazi e la qualità dell’infrastruttura dell’istruzione, ma non può dare soluzioni.
Dovrebbero essere le pratiche culturali a garantire la continuità e le cose che rendono i luoghi molto più specifici per la loro località, e penso che dobbiamo davvero tornare a quei fondamentali per creare la rilevanza dei nostri insediamenti. I grandi sconvolgimenti saranno le cesure esterne, le interruzioni del capitale globale che spinge la propria agenda, la natura estrattiva di qualche tipo di città e insediamenti, e così via. Le interruzioni saranno anche le dimensioni degli insediamenti e il rapporto che ora possiamo stabilire tra l’insediamento e il suo hinterland. Che si tratti di Stati nazionali, di aree regionali o di alcune aree geografiche o continenti, dovremo considerare le città come sistemi interconnessi e non come entità isolate. Per contro, il dibattito sulle città negli ultimi due o tre decenni si è concentrato molto sulle megalopoli, abbiamo celebrato grandi città e megalopoli, ma nel processo abbiamo ignorato le città minori e l’entroterra di molte aree geografiche, e l’interruzione che ho descritto si verificherà se ci concentreremo troppo sulle megalopoli. Le città vanno considerate sistemi interconnessi e non entità isolate. Il futuro starà proprio nelle reti formate da piccole città e grandi città metropolitane, perché l’hinterland, dove vengono coltivati gli alimenti, è fondamentale per la sopravvivenza della città. Grazie a questa configurazione a rete le città possono essere molto più autosufficienti, ed più probabile che adottino il paradigma della sostenibilità.