Nessuno oggi oserebbe mettere più in discussione il fatto che il dilagare di notizie false e di linguaggio d’odio sul web siano ormai una piaga e che occorrano strategie risolute per combatterle. I vertici di Facebook, Google, Twitter, di altri servizi online e dei principali social media sono in prima linea in questa battaglia e hanno già dato prova di attivarsi con tecnologie e servizi pensati per fronteggiare il problema. C’è però un altro fenomeno che sta assumendo i caratteri di un’emergenza del tutto analoga, ma che non suscita lo stesso interesse nei media, e nemmeno lontanamente un impegno simile per combatterlo da parte dei big della Rete. Il motivo è semplice: si tratta dell’ingrediente fondamentale che fa funzionare – a meraviglia, almeno finora – l’economia del web. Parliamo della dipendenza da Internet e da smartphone, la crescente difficoltà a staccarsi dal proprio cellulare, che ci rende più facilmente manipolabili, meno inclini a usare la Rete secondo i nostri obiettivi, e in definitiva meno liberi.
Nell’enorme mercato del web l’attenzione è una risorsa scarsa, e dunque estremamente preziosa. Per catturarla e gestirla si devono mettere in campo le più elaborate strategie, al punto che si potrebbe parlare di un’autentica ingegneria della dipendenza
L’evoluzione degli strumenti che usiamo ogni giorno verso un modello di questo genere non è stata prevista o voluta dai loro stessi ideatori, anche se varrebbe la pena ricordare che Mark Zuckerberg, capo di Facebook, non è digiuno di nozioni su come funziona la mente umana, essendosi specializzato in Psicologia oltre che in Informatica a Harvard. Essa è piuttosto l’esito estremo di un modello di business basato sulla “economia dell’attenzione”, che sul web – contrariamente a quanto avviene con media tradizionali come radio, TV e giornali – non è l’attenzione di un gruppo indifferenziato, ma di ogni singolo utente, con i suoi gusti e preferenze accuratamente rilevati e utilizzati in modo da proporgli pubblicità, prodotti e servizi confezionati sulla base dei suoi interessi.
Ma nell’enorme mercato del web l’attenzione è una risorsa scarsa – sollecitata da miriadi di proposte concorrenti –, e dunque estremamente preziosa. Per catturarla e gestirla si devono mettere in campo le più elaborate strategie, al punto che si potrebbe parlare di un’autentica “ingegneria della dipendenza”, studiata a tavolino per indurci a usare gli strumenti tecnologici – in primis lo smartphone – per un tempo sempre maggiore. Il rapporto con questi strumenti è ormai basato su un automatismo: controlliamo il cellulare in media 150 volte al giorno, e ci colleghiamo a Facebook senza nemmeno rendercene conto o quando abbiamo in mente di fare tutt’altro.
In realtà, il problema della dipendenza da Internet ha origini lontane. Nel rapporto con la Rete si è giocata fin dall’inizio una partita che ha coinvolto in profondità le nostre strutture di pensiero e di percezione del mondo. Il primo libro di 256 pagine dedicato all’argomento, opera della psicologa americana Kimberley Young, risale al 1998 (Presi nella rete, uscito in Italia da Calderini Editore), quando Mark Zuckerberg frequentava la scuola media, il wi-fi non esisteva, il web doveva ancora diventare fenomeno di massa e gli smartphone non erano nemmeno lontanamente immaginati. Eppure già in quel primo studio si evidenziavano tre caratteristiche del nostro rapporto con il web potenzialmente a rischio di creare assuefazione: la capacità di favorire fughe virtuali nel cyberspazio (vale la pena ricordare che il paragone con le droghe fa parte della storia della tecnologia: la realtà virtuale 8 anni prima era stata definita sulle pagine del Wall Street Journal “LSD elettronica”), l’immenso potere di collegamento con altre persone da prendere e lasciare come in un gigantesco flipper, e infine la possibilità di giocare all’infinito con la propria identità online fino a generare un malsano senso d’onnipotenza. Negli stessi anni B.J. Fogg, direttore del Laboratorio sulle Tecnologie persuasive dell’Università di Stanford, studiava il modo in cui i dispositivi elettronici influenzano comportamenti e convinzioni.
Stuoli d’ingegneri si svegliano ogni mattina con l’unico obiettivo di condizionare sempre meglio il nostro comportamento e quindi aumentare la probabilità che si sviluppi in noi una forma di dipendenza
Oggi la corsa in questa direzione si è fatta ancora più esasperata. Al punto che qualcuno ha deciso di denunciare quanto sta succedendo. L’ultimo in ordine di tempo è Sean Parker, primo presidente di Facebook, uscito dai ranghi dell’azienda. In un recente intervento, Parker ha spiegato come il social network più usato al mondo venga ormai gestito con l’intento di sfruttare le vulnerabilità psicologiche del suo pubblico. Prima di lui, in un documentato articolo de The Guardian gli ingegneri e programmatori che hanno ideato funzionalità come il “mi piace” di Facebook o il sistema “pull to refresh” – grazie al quale verifichiamo se ci sono nuovi messaggi scorrendo con il pollice verso il basso – si sono detti preoccupati dalle conseguenze non previste delle loro stesse invenzioni, spiegando che mettono in atto strategie per limitare l’uso di tali strumenti. Titolo scelto dal quotidiano: “Le nostre menti possono essere ‘dirottate’”
I principali modi per operare questo “dirottamento” sono ormai noti. Come spiega Adam Alter, docente di Psicologia e Marketing alla New York University, nel suo Irresistible, uscito pochi mesi fa, il primo meccanismo alla base della dipendenza è il feedback, che si sostanzia di like a una foto o a un post, commenti, condivisioni, retweet. Riceverli ci fa stare bene – è ormai provato che in questo modo vengono stimolati gli stessi circuiti cerebrali attivi quando giochiamo d’azzardo o beviamo alcool –, provoca il rilascio di dopamina e quindi il desiderio di ripetere l’esperienza il più spesso possibile. La dipendenza è poi accresciuta dalla non prevedibilità del feedback: non sappiamo quando ci arriverà un like, né quanti saranno, quindi siamo portati a controllare con sempre maggiore frequenza.
Il paragone con le droghe fa parte della storia della tecnologia: la realtà virtuale 8 anni prima era stata definita sulle pagine del Wall Street Journal LSD elettronica
Non c’è nulla di casuale sullo schermo del nostro smartphone: stuoli d’ingegneri si svegliano ogni mattina con l’unico obiettivo di condizionare sempre meglio il nostro comportamento e quindi aumentare la probabilità che si sviluppi in noi una forma di dipendenza. Il meccanismo delle notifiche ne è un esempio eclatante: originariamente – dice Tristan Harris, ex ingegnere di Google e oggi co-fondatore di un’associazione che aiuta a liberarsi dalla dipendenza da smartphone e web (timewellspent.io) – il colore per segnalarle doveva essere il blu, poi si è passati al rosso, che al cervello trasmette l’idea di allarme e dunque la necessità di un controllo immediato. Il modo stesso in cui ci vengono presentati gli aggiornamenti di Instagram è progettato per farci pensare che ci siamo persi qualcosa a non collegarci e che quindi lo dobbiamo fare al più presto. Ma anche l’avviarsi automatico dei video – in modo che sia molto più difficile smettere di guardarli – fa parte di questa strategia. Così, click dopo click, aumenta il rischio di sviluppare una vera e propria “dipendenza comportamentale”. In assenza, almeno per il momento, di qualsiasi intervento che regoli o limiti l’uso di queste tecniche. Perché se una rete che pullula di hate speech e fake news può essere un grosso problema per chi vende pubblicità, non lo sono invece di certo i milioni di utenti che non riescono a staccare gli occhi da uno schermo.
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