Cosa comporta per te essere il direttore creativo della DAE, quali sono gli obiettivi e le difficoltà?
Ho sentito sempre una sorta di debito di gratitudine verso questa istituzione. La Design Academy (insieme ad altri designer e istituzioni olandesi) è stata la responsabile di un cambiamento netto e repentino di ciò che consideravo essere il design. Ricordo ancora la sorpresa e l’eccitazione provati quando ho visto per la prima volta dei progetti dell’Academy, durante uno dei primi Saloni del Mobile che ho visitato da neolaureato, intorno al 2004 o 2005. Successivamente ho potuto notare – ed è l’aspetto che ancora mi colpisce di più – come una scuola possa riuscire ad avere una serie di effetti, a diversi livelli, su un intero settore culturale. A distanza di una quindicina di anni trovarmi alla guida di questa scuola è perciò una enorme responsabilità e un dilemma, nel senso che da una parte non posso pensare semplicemente di estendere quella che è stata la tradizione di provocazione e innovazione della scuola e dall'altra non si possono solo cambiare le cose per cambiarle.
Qual è il tuo ruolo all’interno della Design Academy?
Nella scuola c’è grande libertà di navigazione, non ci sono direzioni preimpostate e sarà mio compito indicare una rotta. Il ruolo del direttore creativo è quello di infondere all’interno di questa macchina, che ha molte parti autonome, una direzione comune, fornire spunti e provocazioni a cui si può reagire collettivamente.
Da una parte non posso pensare semplicemente di estendere quella che è stata la tradizione di provocazione e innovazione della scuola e dall’altra non si possono solo cambiare le cose per cambiarle.
Qual è il motivo per cui ti hanno chiamato?
La scuola ha una impostazione molto particolare. Da una parte è estremamente internazionale, dall’altra è fortemente radicata nella tradizione fiamminga dell'insegnamento del design. Penso ci sia un desiderio di internazionalizzazione, c’è da specificare che sono il primo direttore straniero della scuola. Inoltre credo di corrispondere all’idea di progettista che c’è in questa scuola. Il mio lavoro è molto poco radicato in un unico territorio e si muove in un triangolo tra arte, architettura e design.
Vorrei ci parlassi della Open Design School di Matera, in cui hai la possibilità di sperimentare approcci inconsueti in ambito accademico.
La Open Design School è una scuola che non è una scuola, è un luogo di scambio dove facciamo convergere conoscenze ed esperienze diverse. È un laboratorio in cui proviamo a eliminare la distinzione tra insegnante e studente, in cui si impara facendo. Un aspetto per me fondamentale è che i laboratori mettono insieme fasce d’età molto diverse, cosa che supera quello che secondo me è uno dei più grandi limiti dell’istruzione tradizionale. Vediamo la scuola e l’università come dei periodi della vita che finiscono. In realtà l’apprendimento è un’esperienza che non finisce mai e che ritorna perpetuamente. La scuola prova ad essere uno strumento di ricerca e di innovazione reale, una piattaforma aperta alla città.
Uno dei più grandi limiti dell’istruzione è la suddivisione delle classi per età.
Intenti simili sembra avere anche il progetto Ideas city, una serie di residenze promosso dal New Museum di New York, che si è recentemente concluso.
Ideas City è una fabbrica di reti umane che si basa su un interesse verso i processi di apprendimento reciproco e orizzontale. Ha l’obiettivo di creare momenti di socialità e convivialità, situazioni non separate dall’apprendimento ma, anzi, centrali in questa esperienza. La formula propone di riunire sotto uno stesso tetto, per un periodo di tempo concentrato, 40 persone di provenienze diverse, sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista disciplinare. Ideas City tenta di riprodurre l’intensità vitale che gli studenti provano all’università. Nei sette giorni di residenza si mangia, si vive, si lavora e si dorme insieme. Solo attraverso una forte empatia e condivisione si possono cementificare i rapporti tra le persone. Durante i sette giorni di residenza si sviluppano progetti concreti, che poi gli autori spesso continuano a implementare anche successivamente. Un risultato importante è stato quello di riuscire a coinvolgere i diversi soggetti locali nel dibattito. Il New Museum si è presentato a tutti come una piattaforma aperta e neutrale, un’ambasciata temporanea, cosa che ha funzionato molto bene. Tra Ideas City e Open Design School più o meno vengono affrontati gli stessi temi, ma con time-frame completamente diversi. Il primo è un progetto breve ed estremamente intenso, il secondo è più prolungato ed esteso nel tempo. Con l’Academy si può operare invece in periodi ancora più estesi.
In generale si può vedere come nelle tue varie sfaccettature di progettista, ricercatore, curatore o direttore creativo si possono riconoscere dei temi comuni. Ma tu cosa preferisci essere?
Sono degli ambiti leggermente diversi ma che riesco a fare solo perché seguo anche gli altri. Sono molto scettico verso la specializzazione, che è un prodotto della modernità. Il moderno può essere definito come un processo di settorializzazione della conoscenza umana. La divisione del proprio territorio cognitivo è più facilmente certificabile ma spesso finisce per essere una prigione. Io ho sempre cercato di sfuggire a questi recinti del sapere. La progettazione e la costruzione fisica di un progetto quindi diventano per me fondamentali. A essere solo un pensatore o processore si rischia di allontanarsi dall’atto creativo e di perdere sensibilità verso quello che sono le difficoltà e le sfide della condizione creativa. Cerco di essere difficilmente incasellabile in un determinato ambito. Questo ti rende ambiguo rispetto al mercato, ma trovo l’ambiguità una qualità anche fertile e cerco di coltivarla.