di Gabriele Niola
Se una cosa ha mostrato il festival di Venezia del 2023, è stato il ritorno prepotente dei grandi temi. Nonostante non siano mai mancati, sono diversi anni che il cinema presentato ai festival ha riscoperto le battaglie politiche, non solo quelle di principio, a favore della pace e contro la guerra, per la comprensione e contro l’intolleranza, ma proprio cause ben circoscritte su cui prendere posizioni forti.
A guidare tutto è stato il cinema commerciale, almeno da quando ha scoperto un femminismo militante che non aveva mai avuto, e ora quello d’autore sembra non esistere se non è capace di sposare una causa specifica. Al festival si sono visti molti film che raccontano storie vere e tramite quelle affrontano questioni puntuali.
Questo però non equivale per forza a essere un buon film o fare un buon lavoro sulle immagini e creare qualcosa di realmente valevole. Per questo i 5 film presentati al festival di Venezia che andranno tenuti d’occhio per tutto l’anno a venire non sono necessariamente quelli che hanno vinto né per forza quelli dei temi più pesanti.
Povere Creature!, di Yorgos Lanthimos
Non si può non iniziare da questo. Era probabilmente il più atteso ed è diventato il Leone d’Oro. È la storia paradossale della formazione di una donna a partire da un’età cerebrale infantile ma già con un corpo adulto, quindi sessualmente sviluppato e pieno di desideri. Emma Stone lungo tutto il film parte incosciente, con la testa di un neonato, e arriva ad essere una donna pienamente formata, senza passare per l’indottrinamento della società degli uomini sull’uso del corpo e sul posto che occupano le donne. È una storia femminista ovviamente, ma girata con un gusto per il design e le architetture impossibili, barocche, liberty, esagerate ed espressive che afferma la possibilità di conoscere se stessi e il mondo a partire dalle relazioni sessuali, del piacere e dalla potenza del corpo femminile.
La meravigliosa storia di Henry Sugar, di Wes Anderson
Sarà disponibile il 27 settembre su Netflix insieme ad altri 3 corti come questo, tutti tratti da racconti di Roald Dahl e girati da Wes Anderson. Se negli ultimi film Anderson ha mostrato un po’ di stanchezza e un’evoluzione del suo stile avvitata su se stessa, qui tutto torna al suo posto in maniera meravigliosa. Questi 40 minuti sono la punta più alta della capacità di Anderson di usare la scenografia, le architetture, il design, i pattern, gli arredamenti e ovviamente i costumi, per raccontare una storia. C’è una densità di trovate e una minuziosa pianificazione intorno ai soli 4 attori presenti (Ben Kingsley, Benedict Cumberbatch, Dev Patel e Ralph Fiennes) che crea un vortice di storie dentro le storie, ognuna con uno stile suo, ognuna con un modello narrativo diverso (il romanzo, il libro illustrato, l’opera animata ecc. ecc.), in un tripudio di fatti che in realtà raccontano l’amore per l’arte del racconto in sé.
Hit Man, di Richard Linklater
Di questo film si parlerà. Un’opera totalmente mainstream, una commedia dall’appeal molto commerciale, che fa di tutto (e ci riesce) a mascherarsi da filmetto divertente grazie a un umorismo devastante. In realtà però Hit Man è pienamente un film che merita il festival di Venezia, uno di quelli che possono fare il salto e passare dal pubblico mainstream e quello sofisticato, in virtù di una sceneggiatura tra le più stratificate viste negli ultimi anni. È la storia vera di un professore universitario che collaborava con la polizia per questioni tecniche e si è ritrovato a fingersi sicario a pagamento, trovando così l’amore. Ma è anche una storia in cui tutti recitano una parte e l’atto stesso del recitare è spiegato, raccontato e illustrato in come modifichi le vite, le persone e le identità. Ma è anche una storia in cui ogni personaggio è recitato con due registri, è doppio e dice due cose contemporaneamente (una con le parole e una con la recitazione). Se è vero che tutti nella vita recitiamo, Hit Man spiega la distanza tra realtà, finzione e l’assurda e grottesca ironia della vita reale. E lo fa a tutti.
Io, capitano, di Matteo Garrone
Ne abbiamo visti e sentiti moltissimi di film sui migranti e sulle migrazioni. Film che raccontano come vivano nei nostri paesi, cosa accada al loro arrivo, che ne mostrano la fatiche, che spieghino il nostro atteggiamento o che descrivano le ingiustizie. Nessuno però aveva mai fatto quello che fa Io, capitano, cioè andare lì, in Senegal e filmare tutto il viaggio che non vediamo, quello dai loro villaggi fino all’avvistamento della costa italiana. Lo poteva fare solo il regista che è andato a girare Gomorra a Scampia, con un’adesione totale alle vere persone. Quello che non potevamo prevedere era l’incredibile e disumana tenerezza che Matteo Garrone è poi riuscito a tirare fuori da questi ragazzi protagonisti, adolescenti incoscienti in un viaggio che (assurdo!) sembra somigliare alle favole sebbene non chiuda gli occhi davanti alle tragedie. Un film con un cuore gigantesco.
The Killer, di David Fincher
Attenzione a The Killer. Come dice il titolo è la storia di una persona che di lavoro fa il sicario (un altro!) ed è descritto con i consueti tratti di professionalità e precisione che al cinema distinguono le persone che uccidono per soldi ad alti livelli. Come accade in questo genere di film c’è un problema e il sicario diventa il braccato. Per garantirsi la sopravvivenza dovrà passare al contrattacco. Fine. Il film è molto lineare, una serie di omicidi pianificati da un professionista del settore uno dopo l’altro, e basta. Apparentemente The Killer quindi non è niente più di questo. Eppure dietro c’è David Fincher, l’autore di Fight Club, e nelle pieghe di questi omicidi così professionali, fatti con travestimenti, pedinamenti e piccole truffe, tutti in sequenza, c’è qualcos’altro. C’è un forte senso del mondo per come funziona oggi, della vita postpandemica e dello sfasamento di una persona che conosce tutto, padroneggia tutto ma non vive niente. Un film che è più di quello che sembra.