Arriva in perfetto timing con i tempi di crisi che stiamo vivendo, che invitano alla concretezza e a rifuggire da manierismi, la decisione della Fondazione Franco Albini — nata nel 2007 a trent’anni dalla morte del Maestro — di aprire al pubblico il suo studio originale (solo su appuntamento, ingresso 7 euro). Albini era un uomo di poche parole e ha lasciato poco anche di scritto: preferiva che a parlare per lui fossero degli atti concreti, i suoi progetti, e amava definirsi un ‘artigiano’. “È più dalle nostre opere che diffondiamo delle idee che non attraverso noi stessi”, sosteneva. Credeva in un modo di progettare “onesto ed etico”, finalizzato al miglioramento della qualità della vita, che ha declinato in invenzioni museali cha miravano a educare lo spettatore, in progetti urbanistici che rispecchiavano le esigenze della civiltà moderna e in pezzi di design che coniugavano qualità artigianali e serializzazione.
È quindi in sintonia con questa filosofia progettuale e di vita che Marco e Paola Albini, figlio e nipote di Franco, hanno deciso di raccontare il lavoro dell’architetto milanese: immergendo il pubblico nel luogo dove egli ha operato negli ultimi anni della sua carriera e conducendolo attraverso un percorso che svela trenta pezzi di design scelti a esemplificare il suo metodo di lavoro. La Fondazione propone quindi una “lezione di metodo” che rappresenta l’ultima tappa di un percorso di lavoro passato dalla schedatura del materiale di archivio al ridisegno in 3D degli allestimenti, alla creazione del sito Exposizioni, al lavoro di gemellaggio con la Fondazione Vico Magistretti e lo Studio Museo Achille Castiglioni fino al rilascio di certificati di autenticità.
Nel bel palazzo di via Telesio ci si muove tra pezzi icone del design come la libreria Veliero, il tavolino Cicognino, la lampada Mitragliera, il mobile radio in vetro sicurit, i montanti in legno per il negozio Olivetti di Parigi, le poltrone Gala, Luisa, Fiorenza e Tre Pezzi, tutti esempi eccellenti di quella ricerca di leggerezza e di quel processo di sottrazione che costituiscono il tratto comune del suo lavoro.
La sensazione è che il tempo si sia fermato, tanto le stanze sono ancora cariche di oggetti, documenti, schizzi e foto d’epoca di Franco Albini. Ma quello che sorprende è soprattutto constatare l'attualità della sua lezione. Quel suo insistere sul ridurre all'osso il progetto, dettato allora da un atteggiamento etico — frutto anche dei difficili anni del dopoguerra — oggi ben si assimila alle esigenze di sostenibilità ambientale che informano i progetti più intelligenti.
Estremamente illuminante si rivela anche il suo lavorare per anni allo stesso progetto, da perfezionare all’infinito, assecondando l’stinto a curare in modo quasi maniacale i dettagli costruttivi: basti pensare che la poltrona Luisa è un progetto del 1949 che gli valse il Compasso d’Oro solo nel 1955. In tempi di scarsa domanda, ma paradossalmente anche di un incredibile proliferare di oggetti cloni di pezzi esistenti, sarebbe certo auspicabile, oltre che sinonimo di intelligenza progettuale, seguire il suo esempio di una produzione mirata e consapevole, dotata di alto tasso di innovazione.