Le sue opere si mostrano come una sorta di patrimonio culturale contemporaneo. L’idea forte è quella di realizzare edifici a un livello qualitativo ed estetico mai inferiore a quello proposto in luoghi e paesi con ben altra disponibilità finanziaria. Un modello sempre di più condiviso da numerosi professionisti africani affermati a livello internazionale, che, nel momento in cui operano in Africa, chiedono parametri eguali a quelli Occidentali. Kéré negli anni ha lavorato seguendo questo imprescindibile modello.
L’architetto Kéré ha tenuto una conversazione a Milano, intitolata “Built to Inspire” in occasione dell’Arch Week (12–18 giugno 2017), organizzata dal Politecnico di Milano, dal Comune e dalla Triennale. Lo abbiamo incontrato.
Riccarda Mandrini: L’Africa è considerata il continente del futuro. La migrazione interna da un paese all’altro ha raggiunto proporzioni elevate (Global Bilateral Migration Database, World Bank). La gente lascia i villaggi per vivere nelle città. Molte contano milioni di abitanti. In un contesto così difficile che richiede soluzioni complesse, ma soprattutto la capacità di dare un’abitazione a un numero sempre crescente di persone, ha senso ragionare in termini di “Built to Inspire”?
Diébédo Francis Kéré: Senza ispirazione non esiste l’innovazione. Senza innovazione non c’è crescita. Dunque non possiamo fare altro che trovare l’ispirazione e ispirare. Se non facciamo questo non ci sarà lo stimolo per innovare. E quindi non ci sarà un futuro. Senza ispirazione non arriveremo a gestire i problemi che ci sono nelle città, molte con milioni di abitanti e una crescita enorme. Per trovare le soluzioni ai problemi di crescita, ci vuole l’ispirazione. L’Africa ha bisogno di ispirazione.
Riccarda Mandrini: Su alcuni dei suoi progetti in Africa, in Burkina Faso, lei ha lavorato impiegando l’idea di memoria collettiva. Ma come dicevamo in un periodo storico in cui gli spostamenti di milioni di persone interni all’Africa – un continente con 54 stati diversi – l’idea di memoria collettiva è ancora valida quando parliamo di architettura contemporanea e di edifici la cui fruizione riguarda un numero di persone ampio con culture, religioni modelli estetici differenti? Rispetto all’idea di memoria collettiva quando si crea qualcosa per la gente non è meglio o forse urgente, riferirsi al concetto di identità. Dell’identità di un’Africa moderna che guarda al futuro?
Diébédo Francis Kéré: Il ruolo e l’importanza della memoria collettiva è un concetto variabile. In un tempo di grandi cambiamenti si concretizza con l’attaccamento alla natura che è un elemento in cui tutti ci riconosciamo. Certo esiste una memoria collettiva più individuale che riguarda le persone. Avere coscienza della memoria collettiva, nel senso di conoscere la storia e le storie dei luoghi dove andremo ad operare, ci permette di trovare delle soluzioni nel momento in cui progettiamo.
Va detto che in Africa esiste ancora un retaggio culturale legato alla colonizzazione. Quei paesi che sono stati colonizzati dalla Francia sono più legati alla Francia, lo stesso vale per il Portogallo. E così per quelli che sono stati colonizzati oppure erano dei protettorati della Gran Bretagna. Questo riguarda la lingua e alcune abitudini. Quello di una identità africana contemporanea è un modello che si pone con insistenza, ma con una valenza differente nei diversi stati. La Nigeria o il Sud Africa sentono il problema in modo diverso rispetto al Burkina Faso o al Senegal ad esempio. Le differenze economiche giocano un ruolo importante nella costruzione dell’identità moderna tra i vari paesi africani. Ma questo discorso vale anche all’interno di uno stesso stato. Come dicevi l’Africa è il continente del futuro, l’idea che l’Occidente ha dell’Africa e degli africani va rivista. Credo che come africani dobbiamo prenderci il tempo di coltivare la nostra identità.
Riccarda Mandrini: Come è cambiato, nel tempo il suo rapporto con la sostenibilità?
Diébédo Francis Kéré: La sostenibilità la vivo ogni giorno. Questa è un’attitudine e si riflette nel mio lavoro. Quindi nei gesti e nelle scelte. Tra le prime cose c’è quella della sostenibilità umana e quindi di formare le persone. Poi creare del lavoro e ancora, relazionarmi con il clima per creare degli spazi che non necessitino di un controllo meccanico per funzionare. La sostenibilità è un argomento complesso che vivo ogni giorno, quasi senza avere il tempo di pensarla.
Riccarda Mandrini: È un’imprescindibile attitudine?
Diébédo Francis Kéré: Assolutamente.
Riccarda Mandrini: Parliamo di estetica. Lei in questa lectio a Milano parlava dell’albero, che è un suo particolare punto di riferimento.
Diébédo Francis Kéré: Sì l’albero è un mio punto di riferimento estetico. L’albero nella natura. Lo è stato anche nella progettazione del Serpentine Pavilion. La copertura del Pavilion è ispirata al feuillage dell’albero, è una sorta di ampia canopia che crea un habitat. Un secondo punto di riferimento è il tessuto africano con le sue trame fitte, forti.
Riccarda Mandrini: A volte ruvide…
Diébédo Francis Kéré: A volte. E anche il colore, l’indaco. Nel Pavilion abbiamo usato dei blocchi di legno e li abbiamo dipinti di questo colore.
Riccarda Mandrini: L’indaco è il colore che usano artisti africani quali Aboubakar Fofana nei suoi lavori tessili e Abdoulaye Konaté in alcuni suoi arazzi.
Diébédo Francis Kéré: L’indaco è un colore naturale, fondamentale nella cultura africana. Se qualcuno ha un appuntamento importante, soprattutto nel caso di un giovane uomo, si veste di blu. Per il Serpentine Pavilion parlerei più di ispirazione che di estetica, che è quella di uno spazio aperto, che accoglie. Inclusivo.
Riccarda Mandrini: Ha detto che si considera il ‘ponte’ tra due mondi, due culture, due realtà. Continua a considerarsi così? Il Pavilion è un po’ la narrazione di questa storia?
Diébédo Francis Kéré: Assolutamente sì.