Considerato fra i più potenti organi europei di promozione della cultura architettonica e urbana, il Pavillon de l’Arsenal è stato inaugurato nel 1988. Era la prima volta che una città decideva di dotarsi di un luogo deputato a parlare di temi legati allo spazio e alla costruzione e a promuoverli attraverso la riflessione e il dibattito. Finanziato al 100% dalla municipalità parigina, il Pavillon de l’Arsenal ha una storia straordinaria, per aver portato alla ribalta un’intera generazione di architetti che hanno costruito a Parigi e qui sono migrati. Il dato eccezionale è che le attività promosse dall’Arsenal sono frequentate all’80% da persone che non hanno alcun legame né con l’architettura né con l’urbanistica e questo è un punto di orgoglio per Alexandre Labasse, architetto di formazione divenuto direttore dopo aver fatto tutta la gavetta all’interno di questa prestigiosa istituzione.
Strategie per “fare” Parigi
Alexandre Labasse, direttore del Pavillon de l’Arsenal, racconta le nuove strategie di sviluppo urbano e architettonico di Parigi.
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- Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot
- 18 aprile 2017
- Parigi
Di Alexandre Labasse ci colpiscono i modi gentili, il suo raccontare di esperienze straordinarie con discrezione, precisione e con un tono di voce calmo, ma fermo anche quando racconta verità pesanti: “Gli architetti non esistono quasi completamente nella stampa nazionale, ci sono pochi articoli che parlano di cultura urbana, c’è pochissima critica e anche l’insegnamento non se la passa tanto bene. Ma se da un lato noi architetti abbiamo una pessima reputazione sulla stampa e siamo ricordati per avere messo le prese al posto sbagliato, dall’altro penso anche che questo significhi anche che c’è un terreno straordinario da riconquistare”.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: Il Pavillon de l’Arsenal promuove con costanza eventi di differente natura: mostre, ricerche, pubblicazioni, visite alla scoperta delle nuove realizzazioni, dibattiti. Chi lavora all’Arsenal? In che modo operate? Qual è il bilancio di questi anni di direzione? Alexandre Labasse: Siamo quasi tutti architetti, ci nutriamo di tutto ciò che è architettura, parliamo con gli architetti, ne viviamo le stesse difficoltà e abbiamo le stesse aspirazioni. Oggi il Pavillon de l’Arsenal non vive più soltanto di commesse pubbliche, ma anche di mecenatismo privato. Facciamo più ricerca rispetto al passato e — dal mandato di Anne Hidalgo in poi — vi è una politica più aperta verso il grande pubblico. Cerchiamo di essere — come gli architetti — in ascolto della società, proviamo a vedere quali sono le grandi sfide, a tradurle in contenuti da proporre al più vasto numero di persone possibili. Il fatto che l’80% di persone che partecipa agli eventi da noi promossi siano estranei al mondo professionale è un indicatore positivo della nostra azione.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: “Réinventer Paris”, “Faire Paris”, “Réinventer la Saine”, “Réinventer la Métropole”: l’intenzione innovatrice di tutti questi nuovi programmi sta nel domandare agli architetti di essere non più soltanto “quelli che tracciano linee”, ma l’architetto si inserisce dentro un processo che lo vede “ideatore di sistemi”. Alexandre Labasse: Fra i vari obiettivi di “Réinventer Paris” vi è di vendere dei terreni in una maniera diversa dal consueto. In Francia, di solito, quando si vende un terreno c’è una perizia e poi si avvia una gara: l’impresa che fa l’offerta migliore si aggiudica il terreno; chi vince decide il programma e, se ne ha voglia, magari lancia una consultazione architettonica. Con “Réinventer Paris” abbiamo deciso di procedere in maniera totalmente differente: abbiamo chiesto ai team partecipanti di indicarci un buon programma da costruire su questi terreni di proprietà del Comune. L’idea è proporre a qualcun altro di costruire la città e non ai soliti soggetti. Le iscrizioni sono state più di 800, più di 300 le risposte. Nel regolamento di “Réinventer Paris” c’è un articolo che mi sta particolarmente a cuore: la sola persona che deve fare – obbligatoriamente – parte del team è l’architetto. Quindi, in ogni gruppo è presente un architetto a cui va l’onere di organizzare un team o d’integrarsi a un altro gruppo per promuovere un programma di reinvenzione urbana su un sito indicato nella call. Le giurie erano composte in maggioranza da consiglieri comunali sotto la presidenza di Jean Louis Missika – l’assessore all’urbanistica e all’architettura iniziatore di questo format concorsuale – insieme con tutti gli altri assessori dei municipi, i gruppi politici, i consiglieri comunali di quartiere e poi gli organismi professionali, quali il Pavillion de l’Arsenal che hanno aiutato e accompagnato le decisioni della giuria. Questo percorso ha riscosso un grande successo: 70.000 persone hanno visitato la mostra e, con i risultati del concorso, abbiamo venduto più di 3.000 volumi. E poi è stato immediatamente lanciato “Réinventer la Seine”, un altro concorso su Parigi Rouen e Le Havre, città collegate dalla Senna e poi “Inventer la Métropole” con capofila la città di Parigi, ma che comprende tutti i comuni della grande cintura. L’ambizione è di fare di Parigi una città che dialoga alla stessa scala delle più grandi metropoli del mondo mantenendo la qualità di vita propria della piccola scala.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: Questo tipo di consultazione ha una forma inedita che forse nelle sue parti più innovative risulta un po’ nascosta. Quali sono stati i punti chiave? Alexandre Labasse: Il sito era in otto lingue perché desideriamo che il mondo continui a venire a Parigi. Anche il fatto che un consiglio comunale venda dei terreni e li metta a concorso rappresenta una novità. Altra innovazione, tutta la prima parte di preselezione dei progetti è fatta dai consiglieri comunali. E poi vendere i terreni non a chi fa la migliore offerta, ma a chi propone un programma che meglio risponde a criteri funzionali e creativi. Abbiamo introdotto una regola nel contratto di cessione dei beni: per i dieci anni successivi alla consegna dei lavori, non può essere cambiata la destinazione d’uso. Tutto ciò va a definire nuovi criteri di fabbricazione del discorso urbano. Che la città sia fatta dai privati non è una novità, l’aveva già promosso il barone Haussmann. Ma il fatto che si chieda a dei privati di fare la “città pubblica”, invece, è un fatto inedito.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: Può farci degli esempi concreti? Alexandre Labasse: Per esempio, l’edificio del sito Morland è stato vinto da un team che comprende la Compagnia del Nuovo Arsenal come società immobiliare, David Chipperfield come architetto e Olafur Eliasson come artista. All’ultimo piano di questo edificio vi sarà un belvedere pubblico con un’opera incredibile dell’artista scandinavo. Se avessimo venduto il terreno con procedura classica, un investitore l’avrebbe comprato, magari ci avrebbe fatto un concorso, ma con quello che costa quel terreno probabilmente ci avrebbe costruito soltanto uffici. Invece, con il nostro metodo la fase di discussione ha definito un programma che comprende uffici, un hotel, alloggi, alloggi sociali, un mercato, un ostello, un incubatore per start-up, luoghi per l’arte e per l’agricoltura urbana, il belvedere con l’opera di Eliasson e una piscina. La piscina appartiene all’hotel che però si impegna a metterla a disposizione durante certi orari alle scuole del quartiere. Si ribalta completamente il modo di fabbricare la città: siamo davanti a una magnifica discontinuità rispetto a tutto quello che si fa di solito.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: Una cosa che ci convince di questo tipo di programma è che si coinvolgono associazioni, cittadini, collettivi e attivisti; si cercano nuove soluzioni per parti di edifici prima neglette come i piani terra o i tetti; vengono ripensati edifici storici malandati e vengono valorizzati terreni vuoti; si producono delle cubature immaginarie – come nel caso dell’edificio-ponte che permette di avere una nuova cubatura non su un terreno, ma nell’aria; si apre il discorso ad attori che normalmente non parlano con gli architetti facendo così in modo che si formino nuovi legami fra gli abitanti della città. Di fatto, si propone una strategia che ha come effetto tangibile quello di rimette l’architetto al centro di un discorso di progetto della società. Alexandre Labasse: Questo fa sì che l’architetto riguadagni il cuore di un processo che è quello di fabbricare una società, una città, un mondo che non corrisponde esattamente all’abitudine di questi ultimi anni. Infatti, in Francia c’è comunque un sistema di concorsi pubblici e quindi dei programmi funzionali già stabiliti. Ma qui l’innovazione risiede nel fatto che il tipo di concorso proposto chiede a tutti di proporre nuove idee e di partecipare alla fabbricazione della città pur nel rispetto delle norme costruttive francesi. Questo serve a valorizzare il lavoro, la ricerca, l’innovazione, l’architetto, l’architettura, la programmazione urbana in un solo concorso: un fatto inedito.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: L’architettura contemporanea viene accusata di non essere più all’avanguardia. Oggi però vi sono tanti modi di essere visionari: attraverso nuove forme, usi, ergonomie e materiali. Nella sua visione di Parigi vi è una certa frugalità, c’è molta vegetazione, viene fuori il ritratto di un cambio di paradigma dove il mondo ci chiede delle risposte, e noi sappiamo che le risorse non sono illimitate. Alexandre Labasse: Quello delle forme non è stato un punto centrale e di sicuro ci sono state proposte forti. Per quanto riguarda gli usi, abbiamo capsule hotel, fattorie urbane, immobili a energia zero, nuove forme di co-proprietà, di co-concezione: sono gli abitanti che disegnano il loro futuro, una cosa prima impensabile in un concorso pubblico. Poi, sui materiali va sottolineato che 11 progetti vincitori su 23 sono in legno. In pratica, una filiera edilizia che a Parigi non esisteva adesso riceve un nuovo impulso, grazie a questa grande visibilità e sembra che la richiesta di realizzare architettura in legno a Parigi stia vivendo un boom. Possiamo dire che il processo è stato validato e adesso tutti hanno voglia di metterlo in pratica.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: Con il programma “Faire”, il Pavillon de l’Arsenal lancia un progetto che mette in valore la ricerca architettonica. Settore abbandonato a se stesso e alla rarissima iniziativa di architetti che riescono a tenere insieme ricerca applicata e pratica professionale. Una combinazione che state cercando di accompagnare. Alexandre Labasse: “Faire Paris” è una piattaforma che promuove la ricerca in ambito architettonico. L’impegno è trovare sistemi che permettano di realizzare certi progetti. “Faire” è dunque un potente strumento di intermediazione fra pubblico, città, architetti, promotori immobiliari, industria delle costruzioni e abitanti: proviamo a mettere tutto insieme e aiutiamo un progetto nella sua realizzazione. Quando abbiamo costruito il Pavillon Circulaire di fronte alla sede del Comune, abbiamo dimostrato come costruire un’architettura utilizzando l’economia circolare. L’idea non è finanziare tutte le ricerche proposte, ma mettere in comunicazione i vari attori e accelerare i processi che possano sostenere la ricerca applicata in architettura. Ci sono start-up in tutti i settori, tranne che nel mondo architettonico. La situazione è difficile, ma almeno proviamo a ribaltare le carte in tavola per sondare nuove piste. Gli architetti hanno questa capacità incredibile di saper sintetizzare differenti saperi con vincoli molto stretti, di captare le energie che danno forma alla società: ci sono poche professioni capaci di fare questo e noi vogliamo che sia una cosa concreta e che l’architetto sia non solo quello che ha sbagliato a ordinare la rubinetteria, ma anche qualcuno che sappia portare dei temi forti in seno alla società.
Salvator-John A. Liotta, Fabienne Louyot: Che cosa s’immagina per il futuro? Quali sono gli orientamenti del Pavillon de l’Arsenal? Alexandre Labasse: Ci sono due progetti di “Réinventer la Seine” che si trovano sulla Periferique di Parigi. Hanno vinto perché – fra varie ragioni – non voltano le spalle al traffico che oggi circonda e asfissia Parigi, ritengono invece che il traffico di domani sarà quello delle auto elettriche, sano e pulito. Mi piace questo invito a guardare avanti, a vedere più lontano. Con questi acceleratori d’idee che abbiamo messo in moto, in due anni ne abbiamo guadagnati dieci.
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