Marco Romanelli appartiene a quella generazione che lui stesso ha definito “in between”, compressa nel design tra la generazione dei maestri e quella dei cosiddetti “giovani”. Nel suo caso, questa posizione borderline si esprime anche nei confronti del progetto, per il quale Romanelli mostra una vocazione totale che abbraccia critica, ricerca, storia ma anche militanza nel progetto, di interni e prodotto. Lucido polemista, ci racconta in occasione della Design Week 2017, il suo punto di vista sul design contemporaneo.
Marco Romanelli
Marco Romanelli racconta i nuovi progetti con Marta Laudani, tra gli altri per Hands on Design e da a, che esplorano l’artigianato inserito in una catena distributiva e mediatica di tipo allargato. #MDW2017
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- Chiara Alessi
- 07 aprile 2017
- Milano
Chiara Alessi: Critico, storico, studioso, architetto e designer: credi sia più difficile approcciare un progetto nuovo quando ti trovi ad avere una consapevolezza così allargata e approfondita della materia dal punto di vista teorico e storico? Marco Romanelli: Direi che è senz’altro più difficile, ma non per questo rinuncerei alla consapevolezza. Vedo in giro continue citazioni e reinterpretazioni del passato che preferisco intendere come “non conoscenze” che come “plagi”. Almeno io, se e quando cito, so di citare!
Chiara Alessi: Critico, storico, studioso, giornalista, architetto e designer: chi butti dalla torre (col paracadute)? Marco Romanelli: Scrivere per me equivale a progettare, cambia solo il modo per costruire la sintassi della frase. Quindi mi definirei semplicemente uno che ha passato la vita “raccontando delle storie” (a volte con le parole, a volte con il disegno).
Chiara Alessi: Hai un rituale, un processo particolare, un posto, una musica di sottofondo, una certa matita che preferisci avere o mettere in pratica quando inizi a progettare? Marco Romanelli: Per risponderti devo fare un passo indietro: sono arrivato, nel lontano 1977, alla facoltà di architettura da un liceo classico molto amato. Traducevo direttamente dal greco al latino, ma disegnavo malissimo secondo i parametri del tempo (rapido a china su lucido!). Ho dovuto quindi imparare a costruire mentalmente, per ogni oggetto o progetto, immagini perfettamente definite a priori e comprensive di tutti i dettagli (oggi la chiamerebbero, credo, una procedura compensativa, come per i dislessici). Ancora adesso lavoro così! Non c’è progresso nel mio progettare: quando comincio a disegnare semplicemente traduco su carta quello che vedo nella mente. Comunque niente musica (a parte The sound of silence di Simon&Garfunkel)!
Chiara Alessi: Sei ottimista sul futuro del design italiano? E il presente? Marco Romanelli: Come fare a distinguere, parlando di futuro, quello del design da quello della società civile? Pur essendo un inguaribile ottimista, rispetto a quest’ultimo mi sembra che tiri veramente una brutta aria. Ecco dunque che il nostro ruolo deve essere oggi più che mai quello di “combattenti”: mi dirai che le nostre armi sono solo estetiche, è vero, ma sono convinto che l’estetica possa trasformarsi in etica. Se qualcosa potrà salvare ancora il mondo sarà la bellezza. Per quanto concerne nello specifico il design sono sicuro che nessun paese al mondo sia ancora pronto ad assumere il ruolo che, dalla fine della seconda guerra mondiale, è stato dell’Italia.
Chiara Alessi: Un problema del design italiano che elimineresti per rendere tutto più sensato? Marco Romanelli: Senz’altro l’incapacità di fare sistema. In particolare da parte delle istituzioni, quindi da parte delle imprese e infine da parte dei designer. Sono convinto che l’Italia abbia i migliori critici, i migliori designer e le migliori aziende: bene è ora di cominciare a collaborare!
Chiara Alessi: Cosa porti al Salone di quest’anno? Marco Romanelli: È stato un anno strano, di grande riflessione: il preponderante ritorno all’artigiano e l’affermarsi di fenomeni quali l’autoproduzione hanno fatto decidere Marta (Laudani, la mia socia) e me di lavorare sostanzialmente su un’ipotesi di manualità all’interno dell’industria. Sono infatti assolutamente convinto che la fuga dalla produzione in serie significhi alla fine una rinuncia all’ideale più utopistico e contemporaneamente più vero del nostro mestiere che è ancora quello di creare oggetti di grande qualità e bellezza per “molti”. Ecco allora che, con due aziende, una giapponese (Hands on Design) e una italiana (da a), ci siamo concentrati proprio sul tema dell’artigianato inserito in una catena distributiva e mediatica di tipo allargato. Ne sono nati candelieri in vetro borosilicato come sfere preziose, fiori di filo di rame intrecciato da giustapporre, nei vasi, ai veri fiori recisi e una serie di arredi in metallo che utilizzano in modo creativo la lamiera forata e le griglie metalliche.
Io e Marta Laudani abbiamo progettato anche delle tovagliette pieghevoli per l’editore Corraini (per cui avevamo già disegnato un segnalibro). È un progetto a cui teniamo molto: a partire dal titolo, Do not design only sofas!
Sulla stessa linea, ma accentuando ancor più il tema del “significato”, si è svolto il mio lavoro di critico e curatore con una mostra piccola, ma abbastanza sconvolgente che si intitola “Intorno ai vasi sacri”: ho convinto cinque maestri del design italiano (Antonia Astori, Riccardo Dalisi, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini e Paolo Rizzatto) a progettare un nuovo calice da messa, l’oggetto probabilmente più simbolico di tutta la celebrazione liturgica (e della nostra storia occidentale). I risultati sono straordinari.
Chiara Alessi: Si tratta quindi di progetti con realtà che prediligono un approccio “sartoriale” a uno da “progettificio”. Sono incontri che funzionano come affinità elettive? Marco Romanelli: Dal punto di vista del metodo non ci sono differenze. Abbiamo sempre cercato di portare avanti un design “del significato” e non solo una sequenza di progetti. Molto spesso Marta e io progettiamo addirittura “a monte” dei brief, ovvero proponiamo alle aziende specifici temi di ricerca (anche se devo confessarti che questa perdurante crisi economica si è ormai trasformata in una crisi di ideali ed è quindi sempre più difficile trovare un ascolto che non sia immediatamente “monetizzabile”). Sono convinto invece che solo la ricerca (tipologica ed estetica in primis, e quindi tecnologica e sui materiali) possa garantire il progetto dai rischi di una uniformazione senz’anima quale quella cui stiamo assistendo (se hai bisogno di una conferma ti sarà sufficiente sfogliare le prime pagine di una qualsiasi rivista di arredamento: le pubblicità dei grandi marchi storici che si susseguono, una via l’altra, propongono ambienti assolutamente identici e intercambiabili!).
Chiara Alessi: Come organizzi il tuo tempo durante la settimana del Salone del Mobile? Cosa cerchi di prediligere? Marco Romanelli: Per me rimane centrale il Salone del Mobile, ovvero le presentazioni alla fiera di Rho. Credo infatti che al Salone avvenga il confronto reale tra i designer e le imprese. Al Fuorisalone è più facile nascondersi dietro argomenti secondari, quali l’allestimento e l’atmosfera. A me interessa l’evoluzione tipologica del prodotto: ovvero cercare oggi quello che sarà la storia del design di domani.
Chiara Alessi: Cosa pensi di questa tendenza passatista nel mondo dell’arredamento e dell’architettura d’interni? Marco Romanelli: 1) Si guarda indietro quando si ha paura di guardare avanti! 2) L’architettura degli interni pochi la praticano e comunque nessuna rivista la cerca più! Non si pubblicano piante, non si spiega il progetto. Si pensa che gli interni siano nature morte con pareti grigio topo, cesti di frutta e un libro casualmente aperto e appoggiato su un tavolino d’oro. E pensare che il grande design italiano è nato, indiscutibilmente, dagli interni e credo che, negli interni, debba continuare a verificarsi e a crescere, per non perdere l’anima!
© riproduzione riservata
3–9 aprile 2017
Marco Romanelli
Hands on Design
Rossini Art & Design Hub
via Gioacchino Rossini 3, Milano
Da a
via Solferino 18, Milano
Valsecchi 1918
Salone del Mobile.Milano
Pad 16, stand F38
Corraini 121
via Savona, 17