Formatosi all’Accademia di Eindhoven, l’israeliano Erez Nevi Pana, classe 1983, ama lavorare con materiali poveri, ma ricchi di simbologia. Meglio se provengono dal suo Paese e meglio ancora se naturali. Ed è proprio dal deserto israeliano mangiato dal sole che nasce un’analisi delle potenzialità del sale, considerato qui come elemento malleabile e atto all’utilizzo creativo – oltre alle relative implicazioni che un elemento cosi iconico porta con sé.
Erez Nevi Pana
Incontrato alla Dutch Design Week, il designer israeliano ci racconta i suoi ultimi progetti – sulle potenzialità del sale e sul design “vegano” – uniti da un approccio emotivo, etico e non convenzionale.
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- Maria Cristina Didero
- 09 novembre 2016
- Eindhoven
Per la mostra di fine corso del master in Design, Nevi Pana ha prodotto la collezione “Salt”, che sta riscuotendo curiosità e successo perché aperta – oltre la produzione di oggetti di arredo capaci di durare nel tempo grazie a una particolare cristallizzazione del materiale – anche a molteplici declinazioni in ambito architettonico. Il suo approccio al design è singolare ed emotivo, sicuramente non convenzionale. A conferma della sua posizione rigorosa ed etica, quest’anno in occasione della Dutch Design Week di Eindhoven (22–30 ottobre 2016), negli spazi autogestiti de La Terrasse, Nevi Pana ha presentato “The Veganism”, un progetto controverso che racconta com’è possibile fare design senza utilizzare alcun materiale di provenienza animale. Vegano lui stesso, il giovane trasferisce questa sua l’attitudine di profondo rispetto nei confronti della vita e degli esseri umani tutti e della natura nel suo modo di guardare al progetto.
Maria Cristina Didero: Qual è il tuo atteggiamento nei confronti del design e come lo definiresti? Erez Nevi Pana: Ho una prospettiva concettuale e insieme sperimentale. In parte il processo progettuale consiste nel perdersi ed essere spontaneo. Raccolgo esperienze e metto alla prova idee e materiali anche se, nel primo momento, non vedo l’oggetto o la funzione. Può sembrare un po’ stravagante, ma sono come un salmone che nuota controcorrente. Credo di aver scelto il design sapendo che nel mondo dell’arte non sarei stato altrettanto radicale. Mi piace passare da un estremo all’altro, mai stare a metà.
Maria Cristina Didero: Capisco che sei un esploratore che “usa il design come uno strumento significativo per analizzare dei fenomeni tramite la sperimentazione materiale”: come sei arrivato a questa posizione? Erez Nevi Pana: Credo soprattutto per la mia formazione: al liceo per quattro anni ho studiato Biologia come materia principale, oltre all’ibridazione delle piante nel vivaio dei miei genitori, dove ho passato la maggior parte dell’infanzia. Questi due ambienti, credo, hanno dato forma al mio temperamento sperimentalista e ludico. A mano a mano che procedevo verso il design la metodologia del laboratorio e l’indagine materiale mi parevano la perfetta fusione delle mie due aspirazioni. Sostanzialmente uso il design come base dimostrativa delle mie sperimentazioni sui materiali, con le persone e gli ambienti che mi stanno intorno, e so che attraverso questa disciplina ho una libertà maggiore.
Maria Cristina Didero: Questo sperimentalismo ti conduce a realizzare oggetti che possiedono sempre un secondo significato: tieni in considerazione questo aspetto quando inizi un nuovo progetto? Voglio dire: il contenuto dev’essere più forte della forma? Per me è un fatto positivo. Erez Nevi Pana: Nei miei lavori si possono trovare varie stratificazioni e vari livelli. Mentre il progetto procede mi piace scrivere e talvolta, nel mio percorso, le parole hanno lo stesso peso della forma e dei materiali. Anche le mostre che ho curato negli ultimi due anni hanno una base testuale: una bella citazione da un testo porta a parecchie idee e a parecchi significati del progetto concreto vero e proprio. Penso che i designer debbano pensare e anche far pensare la società, specialmente quando il confine tra un designer professionista e chi non ha la stessa formazione è così sfumato, grazie alle tecnologie che hanno infranto l’esclusiva che i designer avevano fino a non molto tempo fa. Con i miei progetti mi piace raccontare una storia e far pensare, o magari far agire le persone quanto entrano in rapporto con essi.
Maria Cristina Didero: Mi interessa molto il tuo progetto intitolato Salt. Hai inventato e poi brevettato un processo in cui il sale si fonde al sole (cosa che succede probabilmente in Israele, dato che in Olanda non c’è poi tanto sole …) creando in pochi minuti dei grandi cristalli. Che cosa ti ha spinto a esplorare questo curioso tema, e come è partito il processo? Erez Nevi Pana: Ho iniziato a lavorare con il sale durante il secondo anno del mio corso di laurea alla Design Academy di Eindhoven. Dovevamo scrivere una tesi e io sentivo un po’ di nostalgia. E poi, recandomi in Israele per l’estate, vidi questa gran montagna di sale in mezzo al deserto, che mi spinse ad approfondire le indagini su questo sottoprodotto della Dead Sea Works. In parallelo con la redazione della tesi dovevo sviluppare un progetto e, per pura curiosità sulla reazione del materiale al calore, lo fusi nel laboratorio della scuola di design, cosa di cui non furono molto contenti (fui escluso dai laboratori per qualche mese…). Ma io sono un tipo testardo e trovai altri modi per proseguire fuori dall’Academy. Il che mi riportò alla regione del Mar Morto per sperimentare con il sale nel punto più basso della Terra. L’idea di fondere il sale con la luce solare è ispirata al grande lavoro di Markus Kayser, che con la luce solare ha fuso la sabbia. Sapevo che la fonte energetica del processo di fusione deve essere sempre priva di costi. Aveva un senso usare l’energia solare per produrre lastre e blocchi che in ipotesi dovevano essere una specie di marmo dei poveri. Dato che ero il primo al mondo a usare questo metodo ho potuto brevettarlo.
Maria Cristina Didero: Come nasce l’idea di lavorare con un materiale naturale come il sale – un materiale davvero significativo, ricco di simboli – e che cosa significa l’uso che ne fai? Erez Nevi Pana: Quando ho scoperto che la Dead Sea Works ricava scarti per 20 milioni di tonnellate di sale dalla produzione di bromo e potassio ho capito di aver trovato la mia prossima impresa. La storia del sale è davvero straordinaria ed strettamente intrecciata con la nostra storia. Considero la ‘decadenza’ di questo prezioso materiale un riflesso della gran confusione che abbiamo portato in questo mondo. Mi piace contribuire a salvare le persone, gli animali e, credo, anche i materiali. Sono molto emotivo nel mio lavoro e nel mio modo di vivere, per cui mi sono assunto il compito di rendere di nuovo appetibile questa trascurata abbondanza di materiale.
Maria Cristina Didero: Ma non è un modo nuovo di pensare come il sale si possa usare per oggetti o per elementi più grandi? Hai parlato di “una produzione di lastre e blocchi di sale che possa essere usata dagli abitanti del luogo per le loro case, e anche integrarsi nella nascente filiera dell’ospitalità alberghiera locale”. Quindi mi par di capire che questo progetto conduce a molte differenti possibili applicazioni della tua invenzione. Sarebbe possibile usarlo anche nelle strutture architettoniche? Erez Nevi Pana: Ho alcuni punti di riferimento come i lavori di Tokujin Yoshioka, che ha realizzato degli oggetti grazie alla cristallizzazione del sale. Ma sapevo anche che l’idea dei prodotti di lusso non avrebbe risolto l’esigenza di assorbire venti milioni di tonnellate ogni anno. Naturalmente per chi studia Progettazione contestuale alla DAE ha più senso andare verso il design artistico e fare con il sale un bell’oggetto, ma io sapevo di voler affrontare questa stupefacente montagna di sale che si va accumulando, e anche di voler avere a che fare con i problemi sociali di quella regione. L’idea di usare il sale per costruire abitazioni per gli insediamenti locali e anche per gli alberghi intorno al Mar Morto era più logica, e oggi sono in contatto con società di tutto il mondo: insieme stiamo progettando la creazione di città di sale intorno a noi.
Maria Cristina Didero: Questo progetto per te ha un significato speciale, ma lo stesso vale per altre attività di cui ti interessi: per esempio la tua ultima mostra sul veganismo (intitolata The Veganism), che hai curato per la Settimana olandese del design di Eindhoven, si occupa molto più di etica che di estetica. Dimmi qualcosa di più. Erez Nevi Pana: Da qualche anno sono vegano e il percorso, partito dal cibo che consumavo, si è spostato all’abbigliamento. Mentre stavo tessendo la mia collezione Neomadic ho capito che nel mio lavoro consumo anche animali. Ho deciso di dedicare a questo argomento la mia tesi di dottorato. Dato che l’idea del design vegano è nuova ho deciso di allestire una mostra con nove designer e saggisti che riflettessero sul tema. È stata la prima mostra in assoluto sul veganismo nel design e sono rimasto molto soddisfatto dei risultati e del modo in cui i partecipanti hanno affrontato il tema. Devo ammettere che è stato un percorso lungo e difficile, dato che ero l’unico vegano del gruppo.
Maria Cristina Didero: Mi par di capire che La Terrasse, dove la mostra vegana è stata allestita, fosse una “piattaforma che [riuniva] designer e saggisti intorno a uno stesso tema” e che tu ne sia stato il promotore. A quanto pare un luogo che intendeva “essere fonte d’ispirazione e di provocazione per i designer, che [esprimevano] la loro interpretazione del tema prescelto attraverso prodotti e testi”. La mostra è stata molto interessante, in grado di porre al pubblico alcune domande cruciali sul suo comportamento. Hai concretamente confermato che un design senza l’uso di animali-materiale è davvero possibile. Ma chiedo: credi che il design possa toccare l’animo e cambiare le abitudini delle persone? Erez Nevi Pana: La mostra The Veganism ha messo i visitatori di fronte a uno specchio, li ha fatti pensare e ha indotto qualcuno a capire che lo sfruttamento degli animali non si limita alla tavola. Posso anche aggiungere che i designer che hanno partecipato hanno lavorato molto seriamente alla realizzazione delle loro idee e dei loro progetti, e per me il motivo era ovvio. Come ho detto ero l’unico vegano tra i nove del gruppo, eppure sono riusciti a dar corpo ad altre prospettive e ad altri modi di vedere, che mi hanno reso molto orgoglioso. Inoltre mi ha sempre spinto il desiderio di creare oggetti o scrivere testi che dessero emozione, e direi che il design può davvero toccare l’animo. Le professioni creative tendono a essere più passionali che analitiche; vorrei consigliare a tutti i designer di seguire la strada dell’emozione e di trarne qualcosa.
Maria Cristina Didero: Ho particolarmente apprezzato questo senso dei confini incerti, una sensazione particolare che mette insieme certi esempi di design israeliano, una specie di prospettiva particolare del design, parlando in generale. Che cosa pensi della scena contemporanea del design israeliano e quali sono le caratteristiche principali che noti, sempre che secondo te ce ne siano di speciali… Erez Nevi Pana: Mi piace il panorama del design di Tel Aviv. Oggi ci passo qualche tempo dopo esserne stato lontano per quattro anni, e mi pare che la scena sia in ebollizione. Chi vive in questo paese è sottoposto a tante pressioni e a tanto stress che si rifugia – lo si vede – nella creatività e nell’arte. Non riesco a definire con chiarezza il design israeliano e non sono certo che lo si possa fare. Non è stato mai documentato, non è mai stato oggetto di ricerche né collezionato in modo coerente e, per essere franco, credo che la creazione di nuovi territori del nazionalismo sia l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Se mai lo si può definire multiforme. Ma credo che dovremmo soltanto lasciare queste etichette al XX secolo.
Maria Cristina Didero: E poi: quanto il design può essere considerato un motore potente per muovere la società e quanto potrebbe realmente cambiare la società in cui viviamo? Erez Nevi Pana: Il design è sempre stato una causa del cambiamento sociale e sempre lo sarà. Basta pensare alla società prima del primo utensile, oppure alla società di oggi con la cultura dell’iPhone: un buon progetto cambia in meglio il modo di agire nella vita delle persone, influisce su di esso e lo riorganizza. Ma certe volte mi pare che i designer debbano pagare il prezzo di questo tentativo di cambiare la società in cui viviamo e che debbano lottare per anni a causa della loro formazione, che li sovraccarica di pressioni. L’atteggiamento verso il design si fa più meccanico, in certo qual modo perfino robotico; si dimenticano di aver scelto una professione che dovrebbe essere creativa e divertente. Non vedo in giro molti designer felici, forse solo perché a Eindhoven non c’è molto sole…
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Veganism
Curator: Erez Nevi Pana
Exhibition design: Erez Nevi Pana & Amir Ben Aharon
Graphic: Camille Bulteau Barreau
La Terrasse Gallery, Eindhoven