Bruno Melis, Elisabetta Carboni: Quest’anno ricorre la decima Vienna Design Week, una gran festa per la città e per te come direttrice del festival. In retrospettiva, quali sono stati i cambiamenti principali? Quali sono gli obiettivi che hai raggiunto e quelli che vorresti raggiungere in futuro?
Lilli Hollein: Abbiamo varato la manifestazione con il desiderio di dare a Vienna un posto sulla mappa internazionale del design, e oggi la città vi è insediata molto saldamente. La Design Week è riuscita a collegare la città a un pubblico internazionale. Ciò che è cambiato nel corso degli anni è che siamo diventati popolari presso il pubblico locale. Stiamo diventando sempre più internazionali, il nostro pubblico si fa più vasto, e questa è sempre stata una delle nostre aspirazioni: non solo la folla del design internazionale, ma anche le persone comuni che vogliono farsi un’idea di che cosa sia il design. La nostra prospettiva del design è molto ampia. Abbiamo il design sociale, la mobilità urbana, il disegno industriale, la comunicazione visiva, l’artigianato e molti progetti formativi. È una manifestazione attentamente preparata. Abbiamo sempre voluto presentarci come qualcosa di viennese, e credo che ci siamo riusciti. Presentiamo nuovi talenti. Guardiamo all’Europa orientale. Commissioniamo progetti, cerchiamo di presentare progetti inediti grazie al fatto che li abbiamo commissionati e seguiti noi. Abbiamo cercato di creare un’atmosfera speciale, qualcosa che favorisca il turismo.
Per comprendere questo processo, in molti casi, occorre viverlo. Con Passionswege i committenti siamo noi, siamo noi a pagare il conto del designer. Paghiamo anche i materiali e gli strumenti. Il progetto è fondamentalmente finanziato da noi. Per questo progettisti e produttori hanno gli stessi diritti, non è che l’uno dia l’incarico all’altro. E questo ci rende diversi da molte altre iniziative di design e d’artigianato che sono venute dopo. Non solo accoppiamo produttori di tradizione con designer contemporanei, ma privilegiamo l’innovazione. Non si deve necessariamente realizzare un prodotto. Se vogliono redigere insieme un manifesto, per le regole di Passionswege sta bene. Morag Myerscough ha realizzato un’installazione. Il pezzo di Maxim Velcovsky che vedi al piano di sotto è stato progettato come installazione. È diventato un prodotto perché era così bello che l’Ente del Turismo di Vienna ha deciso di finanziarlo. Noi lavoriamo così.
Ho scelto gli accoppiamenti, e credo che in questo siamo particolarmente bravi. Mettere insieme le persone giuste è importante. Prima di formare le squadre cerco di incontrare tutti di persona per valutarne il carattere e la personalità. Direi che il 96 per cento delle squadre si è rivelato eccellente!
Bruno Melis, Elisabetta Carboni: Che cosa vuol dire ‘buon design’?
Lilli Hollein: È qualcosa che ha tutte le qualità che il design deve avere. Funzionalità ed estetica a parte, è qualcosa che ti tocca in un certo modo. Non si tratta necessariamente sempre di un oggetto. È questione di qualità emotiva. Può essere un regalo da parte di qualcuno che ti è caro. È qualcosa che ha una qualità in più. È proprio quello di cui vado in cerca. Cerco cose che abbiano un senso, può essere un oggetto di design che è quasi un’opera d’arte oppure un progetto di design sociale, oppure un utensile da cucina superfunzionale.
Bruno Melis, Elisabetta Carboni: Tuo padre Hans Hollein è stato un grande architetto, e tu sei cresciuta in un ambiente stimolante. Quanto è stato importante per la tua carriera e per le tue scelte di vita?
Lilli Hollein: Quel che hai intorno da bambino conta sempre. Era ed è tuttora un mondo interessante in cui crescere. Decisamente la mia cultura architettonica ha influito sulla mia vita. Ho studiato psicologia per due anni, ho cercato di star comunque lontana da arte, architettura e design, ma dopo il primo anno già frequentavo i corsi serali della Universität für angewandte Kunst (l’università delle arti applicate di Vienna). Dopo il secondo anno ho iniziato a studiare Disegno industriale. È stato importante perché ho deciso molto presto di non fare la designer. Mentre studiavo Disegno industriale ho iniziato a scrivere una rubrica settimanale su un quotidiano e mi è diventato chiaro che la prospettiva didattica del far incontrare le persone, raccontando il design e abbandonandomi al mio stesso entusiasmo, era il mio mondo.