La nostra conversazione inizia con un giocattolo tribale fatto di foglie di palma. Andrea me lo mostra e il suo sguardo limpido subito si accende. È un oggetto povero, fatto di materia prima vegetale e fantasia; un vero attivatore di emozione e di pensiero.
Il lato vulnerabile del design
Ritornato al design dopo una lunga assenza, Andrea Anastasio si racconta a Domusweb: dagli studi in filosofia agli incontri con Sottsass e Munari, dalla lunga parentesi in India ai progetti per il Salone.
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- Domitilla Dardi
- 04 marzo 2016
- Milano
D’istinto la mia mente va a Munari, l’unico dei grandi maestri ad aver dedicato tutta la sua produzione matura all’insegnamento, alla formazione, all’infanzia, perché i bambini sono il nostro testimone da passare. E infatti Anastasio annovera Munari tra gli incontri cruciali della sua vita. La sua storia ha la dinamica del fenomeno carsico: da un paio d’anni il suo lavoro è tornato visibile, dopo un inizio folgorante all’inizio degli anni Novanta dove il suo esordio dirompente lo porta subito al centro della scena del design milanese. In mezzo un azzeramento, una scomparsa, l’apparente assenza. E, esattamente come nel fenomeno naturale, è sommessamente che il fiume progettuale si arricchisce di esperienze straordinarie per tornare oggi più ricco che mai.
Domitilla Dardi: Come sei arrivato al design? Andrea Anastasio: In maniera del tutto imprevista, accidentale e per certi versi “epifanica”. Venivo da studi di filosofia con indirizzo orientale, quindi il design non era esattamente nei miei piani. Ho studiato per anni il sanscrito, e volevo fare proprio l’accademico per il resto della mia vita! Ho sempre avvertito la passione per i tempi lunghi dello studio, per il dialogo e per il confronto delle idee.
Domitilla Dardi: Quindi ti sei laureato in Filosofia? Andrea Anastasio: Dopo la laurea a Roma in lingue arie moderne, sono andato a Venezia dove ho studiato il pensiero religioso orientale, i mistici islamici e Simone Weil, laureandomi in Filosofia. Quello che ha accompagnato tutti i miei studi, comunque, fin da quando ero al liceo, è stato quello che le maestre delle elementari chiamavano le “doti artistiche”: dipingevo, costruivo oggetti, facevo piccole sculture. Inoltre, ho un fratello gemello artista e ho sempre guardato a quel mondo con grande fascinazione. Ma non avrei mai pensato che potesse diventare un mestiere. Poi accadde che dei miei amici mi invitarono a Milano a una festa. Si trattava della festa per il settantesimo compleanno di Ettore Sottsass e per il decennale della Sottsass Associati. Come puoi immaginare a quella festa c’era il “mondo del design”, ed io ero a dir poco un outsider. Incontrai Ettore Sottsass così. Dopo i saluti, mi fece notare che gli piaceva molto la spilla che indossavo, gli dissi che l’avevo fatta io e mi chiese se fossi un designer. Quando gli risposi che mi occupavo di filosofie orientali vidi nel suo sguardo una scintilla. Circa un mese e mezzo dopo mi invitò al suo studio dove abbiamo passato una mattinata magnifica, parlando di tutto. Aveva una lettura della filosofia indiana che è quella classica del mondo greco, basata sull’idea dell’Olimpo.
Domitilla Dardi: E dopo questo incontro? Andrea Anastasio: Alla fine della mattinata Sottsass fece tre telefonate: la prima a Isa Vercelloni, suggerendole di pubblicare le cose che gli avevo fatto vedere; la seconda ad Antonia Jannone chiedendole un appuntamento per me; la terza a Carla Sozzani che in quegli anni affiancava Romeo Gigli. Così videro queste sculturine, alcune di vetro, altre di plastica. La Jannone mi commissionò una mostra, partendo dalle sculture per arrivare a una collezione di vasi, e Isa Vercelloni pubblicò i lavori su Casa Vogue. Cercò di portarmi verso una funzione d’uso, tema che non mi posi all’inizio, ma che arrivò dopo, forse perché venivo da un’altra formazione. E poi, queste opere erano tutte fatte in maniera estremamente istintuale, senza pormi degli obiettivi. Non c’era ancora un pensiero dietro, né tanto meno l’idea di un palcoscenico. Domitilla Dardi: Oltre Sottsass hai fatto altri incontri importanti in quegli anni? Andrea Anastasio: Incontrai Munari ed è stato lui che mi ha fatto intuire che stavo per toccare qualcosa di molto importante dentro di me, anche se non sapevo bene di cosa si trattasse.
Domitilla Dardi: Come sei arrivato in Artemide? Andrea Anastasio: La mostra da Antonia Jannone, dove presentai dei vasi che erano sostanzialmente dei giochi, s’intitolava Childrens’ corner. Avevo sempre studiato musica, insieme alla filosofia, così il legante per mettere in piedi il mondo di Childrens’ corner è stato Debussy: si trattava di un paesaggio ludico, molto legato alla nostalgia dell’nfanzia e ai racconti del primo Novecento, della grande guerra, che mio nonno mi faceva quando ero piccolo. C’era anche molto Savinio, e la sua percezione della natura in bianco e nero dove spiccano i colori dell’operato ludico dell’uomo. Assieme ai vasi e ai gioielli, per la mostra feci una lampada che piacque molto a Isa Vercelloni e a Toni Cordero, che aveva appena disegnato MI-TO per Artemide. Gismondi non venne a vedere il lampadario, ma chiese se fosse possibile portarlo in azienda. E così feci. Lui mi presentò Giancarlo Fassina e lavorammo tutto il giorno in grande libertà. Andai via la sera che avevamo appeso al soffitto ben tre lampade. Non avevo neanche immaginato di aver progettato tre possibili lampade per la produzione Artemide, pensavo fosse un esercizio! Gismondi non fece trapelare una reazione, mentre Fassina si era divertito moltissimo, anche perché – ora me ne rendo conto – avevo portato un mondo che di solito non entra in azienda. Dopo qualche giorno arrivò una telefonata di Isa Vercelloni che mi annunciava festante che Gismondi aveva deciso di farmi fare una collezione. Cosa che da un lato mi faceva ovviamente piacere, ma dall’altro mi metteva profondamente a disagio. Venendo io da un mondo dove tutto era ottenuto con estrema difficoltà, questa facilità di eventi davvero non riuscivo a comprenderla.
Domitilla Dardi: Quindi in sostanza rimanevi un outsider anche dopo essere stato riconosciuto dal mondo del design con la D maiuscola... Andrea Anastasio: Infatti presi la decisione di allontanarmi, cosa che all’inizio non sembrò drastica, perché avevo detto che mi sarei preso un periodo sabbatico di sei mesi. Andai in India con un senso di libertà e di ritorno a casa. Non sapevo che in realtà il design mi avrebbe fatto un regalo enorme anche a distanza: infatti, conobbi Pupul Jayakar, all’epoca presidente della Fondazione Krishnamurti, e quando seppe che avevo disegnato per Artemide e Memphis (lei era stata amica di Gio Ponti e conosceva bene il design italiano e Sottsass, che aveva invitato a interagire con gli artigiani indiani) nacque una bella amicizia e mi propose di rimanere con una borsa di studio in India, a Madras, a occuparmi degli scritti conservati in archivio, con l’unico impegno di tenere un seminario sulla progettazione due volte all’anno, presso le scuole della fondazione. Così, partito per un sabbatico di sei mesi, ci sono rimasto dodici anni.
Domitilla Dardi: E cosa hai fatto per dodici anni lontano dall’Italia? Andrea Anastasio: In India è cominciato il processo di azzeramento. Ho studiato e fatto seminari, ma per cinque anni non ho progettato cose in senso stretto. Dopo pochi mesi ho accettato un progetto pilota della Fondazione, che prevedeva l’adozione di cinque bambini, orfani tibetani dai cinque ai nove anni d’età, con i quali abbiamo vissuto in una comune nella quale in quattro adulti avevamo l’impegno di trasformare la dimensione di vita quotidiana in apprendimento. Così abbiamo costruito la casa, creato i nostri ambienti di vita. La cosa straordinaria fu che mentre insegnavo, rivivevo il mio apprendimento e scoprivo una dimensione propedeutica di grande ricchezza. E in questo l’esperienza di Munari mi è venuta davvero incontro.
Domitilla Dardi: E poi come sei rientrato nella scena italiana nel 2014? Andrea Anastasio: L’occasione mi è stata data da Luisa Delle Piane che mi ha chiamato a Milano perché aveva visto su un sito una mostra che avevo fatto nel dicembre 2012 a Nuova Delhi. Si trattava di un’installazione realizzata con un’artista indiana, Aradhana Seth (sorella di Vikram, lo scrittore, e che aveva dipinto tutte le scene di Darjeling Express di Wes Anderson) intitolata Room mates, nella quale lei aveva dipinto in chiave pop tutto il mondo domestico, oggetti che andavano dalla vite al martello, dal divano al televisore. All’interno di questo mondo di pareti dipinte, ho messo un Check Point. Era al limite tra arte e oggetto, una vera trincea, un muro disposto a C (dopo, dialogando con Luisa ho capito che poteva diventare una seduta). Nasceva dal fatto che attraversavo tutti i giorni venti posti di blocco, sorti dopo una serie di attentati. Quindi è stato interessante vedere come questo fatto era stato assorbito dall’inconscio e trasformato in qualcosa che è entrato dentro il mondo domestico. Per me era l’occasione per parlare della sottile linea rossa che esiste negli incontri quotidiani, il limite tra l’incontro e l’ostilità all’altro. Lì ho capito che era nato qualcosa che mi permetteva di riprendere in mano la dimensione progettuale di interno e che non mi interessava più definirmi.
Domitilla Dardi: Check Point, ma tutto il lavoro per Luisa delle Piane di due anni fa, affronta il tema della vulnerabilità, perché? Andrea Anastasio: Perché permettersi di stare nella dimensione di crisi, in cui le certezze non hanno più fondamenta solide, richiede un ribaltamento di prospettiva e la vulnerabilità diventa una qualità da proteggere. Portare la vulnerabilità nel moderno, significa arricchirlo della dimensione di ascolto delle differenze e del non progettato. Domitilla Dardi: Il tuo lavoro è fatto di innesti, di temi che si ibridano tra loro. Per esempio i vasi per Bruxelles parlano proprio di questo... Andrea Anastasio: Quelli per The Gallery Bruxelles nel 2015 nascevano proprio dal processo di azzeramento, da una dimensione quasi inconsapevole del gesto quotidiano. Come quando ogni mattina sbucciavo un’arancia e, prima di buttare le bucce, disegnavo i loro contorni sulla carta; alla fine ho registrato un intero libro di forme, geografie, mappe che tornano spesso nella mia immaginazione. Adesso sto cercando di portare tutto questo nella dimensione dell’oggetto domestico.
Domitilla Dardi: E sarà questo il tema anche della nuova collezione che presenterete da Luisa delle Piane per il Salone ad aprile? Andrea Anastasio: Il lavoro più recente per delle Piane, si intitola Contrappesi e nasce da altro. Ero a New York quando c’è stato l’attentato terroristico a Parigi e questo mi ha rimesso in contatto con alcune atmosfere della mia adolescenza in cui vivevo momenti drammatici del mondo in maniera emotivamente molto forte; penso al colpo di stato in Cile, per esempio, o agli attentati terroristici delle stragi di Brescia e Bologna. Ho ripensato al fatto che secondo me Alchimia e Memphis siano stati una reazione istintiva a un mondo che era completamente scisso, con la negazione da parte dei progettisti di partecipare in maniera attiva al disegno della società che è implosa in vari modi: o nell’assorbimento totale e passivo nei meccanismi della società dei consumi o reagendo in maniera violenta con la lotta armata. Memphis e Alchimia sono stati due tra quei pochissimi luoghi nei quali la vita poteva riappropriarsi di una sua vitalità potente. E, pur consapevole dei limiti del mondo e della bestialità che l’uomo può generare, ha riavuto la forza di esprimersi con una grande vitalità. Alla mancanza del progetto del futuro del mondo sociale e politico si rispondeva con questa esplosione di progetti di piccole cose per accompagnare la vita. Quando sono arrivate le notizie di Parigi, ho sentito un grande bisogno di giocare con delle materie, di riaffermare questa caratteristica tutta umana, di generare forme, e di far entrare in sospensione la sofferenza.
Domitilla Dardi: La speranza di una nuova libertà passa attraverso la manualità, quindi? Andrea Anastasio: Anche attraverso questa. Non esiste una forma liberante, e l’uomo non metterà fine al dolore attraverso le cose che fa, ma potrà permearle di una sensibilità sempre più luminosa, capace di esprimere, nelle modalità realizzative e in quelle fruitive una visione del mondo non più centrata sulle logiche del profitto. È come se l’evoluzione di un pensiero si arricchisse di una rilettura e riscoperta di un primitivo che è sempre dentro di noi. La creazione non è avvenuta una volta sola, avviene in continuazione.
Domitilla Dardi: E lo spazio centrale per questa riflessione è secondo te ancora quello domestico? Andrea Anastasio: Lo spazio domestico è l’orizzonte entro il quale l’essere umano si rimette di fronte al mistero del non controllabile. Vedere un cielo attraverso le finestre ce lo addomestica, ma il cielo resta qualcosa di ignoto e misterioso di per sé. La nostra civiltà non ha ancora generato una visione dell’essere che possa trasformare nel profondo lo spazio domestico, liberandolo da quello che ora è. Il sogno è che si possa assistere a un’alba in cui l’unicità straordinaria dell’individuo non si contrapponga al collettivo, ma che lo nutra con tutte le infinite diversità possibili, trovando in esso il compimento di un percorso secolare.
Domitilla Dardi: Infatti, spesso l’oggetto che tu generi nello spazio nasce dall’interstizio tra positivo e negativo, pieno e vuoto. È una negazione della forma? Andrea Anastasio: Non mi interessa fare delle forme da aggiungere ad altre forme. Quello che mi interessa è evocare attraverso la realizzazione di oggetti o con il concepimento di spazi abitativi, la condizione di straordinaria vulnerabilità che è sottesa alla nostra condizione. Una vulnerabilità che va difesa perché portatrice di intuizioni e riflessioni profonde. Negarla significa cedere alla paura e pensare di poter controllare l’ignoto. Ogni fallimento relazionale nasce da lì, ogni regime nasce da lì. Accompagnarla significa accarezzare la semplice verità che ci caratterizza: siamo animali consapevoli della durata. Ed è la domanda nata da questa consapevolezza che può, per esempio, portarci il più vicino possibile a questa cosa straordinariamente normale e allo stesso tempo incredibilmente misteriosa che è il desiderio di portare un fiore in ambiente domestico. Se ti interroghi su quel bisogno, che non ha alcuna funzione pratica, ne vedi la complessità. Eppure da secoli sta lì ed esprime un bisogno naturale profondamente radicato nell’animo umano, contemplare la bellezza e la breve durata di una forma, come se, in quella contemplazione si potesse esorcizzare la realtà del limite, la verità della fine. È quel bisogno, e le molteplici forme che genera, che ci fa superare continuamente i limiti imposti dalla reiterazione di schemi.
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