Alessandra Scognamiglio: Come ti sei trovato a guidare il programma per il Solar Strand per il campus dell’Università di Buffalo?
Robert G. Shibley: Il mio coinvolgimento nel Solar Strand è stato il naturale proseguimento del mio ruolo in una lunga serie di progetti urbanistici, presso l’università e per la comunità più ampia. Come consulente del rettore per il progetto della sede (2006-2010) ho condotto l’elaborazione di un piano regolatore per l’area dell’università: tre complessi per quasi un chilometro quadrato. Il piano mira a collegare il campus con la comunità circostante, creando luoghi gradevoli che invitano alla scoperta. Come presidente del Comitato di gestione ambientale dell’Università di Buffalo ho lavorato a stretto contatto con i responsabili dell’università e con i membri della comunità alla creazione di un Piano d’azione per il clima che portasse il campus a raggiungere la neutralità climatica nel 2030. Prima ho diretto una serie di iniziative di pianificazione per il Comune di Buffalo, tra cui il piano di gestione del territorio. I due filoni di lavoro (la pianificazione e il progetto per l’Università di Buffalo e per l’area locale) si sono riuniti perché i responsabili dell’università si sono resi conto che la nostra responsabilità nell’evoluzione dell’università si estende alla comunità. Più recentemente, come preside della Scuola di architettura e urbanistica dell’Università di Buffalo, ho avuto occasione di considerare questo lavoro dal un punto di vista accademico e pedagogico, trasformando sostanzialmente lo sviluppo del campus, della città e della regione in un laboratorio vivente per docenti e studenti. Quindi è da questo contesto di creazione del luogo, di costruzione dell’area e dall’attenzione alla sostenibilità e alla ricerca d’avanguardia che si è sviluppato il Solar Strand.
AS: Scopo di questa breve intervista è capire come sia stato possibile trasformare una semplice infrastruttura energetica in un fatto culturale e, in particolare, in un paesaggio ibrido dove le persone possono "vivere bene".
RS: Nel 2009 la New York Power Authority (NYPA), l’agenzia per l’energia dello Stato di New York, si è rivolta all’Università di Buffalo perché era interessata a realizzare un normale impianto fotovoltaico solare sul terreno. Il sistema si sarebbe esteso per alcuni ettari all’ingresso del campus, chiuso in un recinto di rete metallica. I responsabili dell’università, me compreso, sollevarono dubbi significativi sull’opportunità di impiantare una ‘centrale elettrica’ alle porte del campus. Visto che erano in gioco il progetto e i 7,5 milioni di dollari stanziati dalla NYPA, mi feci carico di suggerire che un buon progetto, fornendo comunque energia, poteva dar vita a un ingresso del campus più interessante. Ideammo un impianto solare accessibile, coerente con la nostra identità, importante per la comunità e rappresentativo di un nuovo vocabolario progettuale per le installazioni solari di tutta la regione e del mondo. Per trasformare una semplice area di servizio in un’installazione di Land Art organizzammo un concorso internazionale di progettazione, che chiedeva agli artisti di considerare i pannelli solari una tecnica espressiva e l’ingresso del campus una tela.
AS: In che modo questa concezione generale si è poi sviluppata nel brief proposto ai progettisti invitati a partecipare al concorso?
RS: Il bando non era un documento lungo. Non pretendevamo di sapere come sarebbe stato, al di là del fatto che doveva essere un bell’ingresso al campus, doveva generare la quantità d’energia specificata dalla NYPA e doveva comunicare la nostra condizione di importante centro universitario di ricerca pubblica. Eravamo consapevoli che ci veniva offerta l’occasione di trasformare in arte qualcosa di tendenzialmente molto banale, e per di più sempre più soggetto a resistenze del tipo “non nel mio giardino”. Credo che per certi artisti sia una sfida molto interessante. Affidammo loro anche sei ettari su cui intervenire, un obiettivo di grandi dimensioni, contestualmente vario, in mezzo a un’importante area da riqualificare, con un ruscello serpeggiante e degli stagni stagionali. Nel sito c’erano anche un grande impianto idraulico dismesso e un generatore sotto un terrapieno erboso. In conclusione spedimmo il bando a un gran numero degli artisti più importanti del mondo e ricevemmo adesioni da 23 di essi. Il nostro comitato di selezione, oltre alla mia funzione di presidente, era composto da due curatori artistici, da un artista visivo docente dell’Università di Buffalo e da tecnici e ingegneri dell’università e della NYPA.
AS: Il progetto di Walter Hood rappresenta una delle più innovative impostazioni del fotovoltaico degli anni recenti. Non solo usa componenti speciali, né si limita a sistemarli in modo gradevole, ma ripensa l’intera operazione. Qual è stata la valutazione del progetto da parte del comitato, anche in rapporto agli altri finalisti?
RS: Tutti i tre finalisti sono stati straordinari. Diana Balmori, paesaggista e urban designer di New York, ci ha presentato un oggetto inserito nel paesaggio. Sinuoso nella forma, con la metafora di un cumulo di neve che assume la forma di un ‘cumulo solare’. Vito Acconci, designer e architetto paesaggista americano, ci ha offerto un’area molto provocatoria: un parco diverso, differente da ogni altro luogo del campus, dove i pannelli veleggiavano come nuvole riflettendo le alture, gli avvallamenti e gli stagni del sito.
L’idea di Walter Hood consisteva nel costruire l’installazione dentro il campus, integrata nel paesaggio e collegata a tutto il resto. La giuria è stata impressionata da questa profonda riflessione che corrispondeva alla storia, alla geografia e all’ecologia del campus, a partire dal modo in cui l’autore concepiva l’inserimento del Solar Strand nell’elemento naturale del ruscello al trattamento non invasivo degli stagni locali. Anche nel tracciare i percorsi che portano al Solar Strand Walter ha concepito un criterio di sfalcio che definisce un ritmo senza soluzione di continuità rispetto al Solar Strand, esteso a tutto il campus. Walter si è adeguato perfettamente all’articolo del bando che invitava a “creare un bell’ingresso per il campus”.
AS: Il Solar Strand fa parte di una ristrutturazione ecologica più sistematica e complessa della sede dell’Università di Buffalo. Descrivici brevemente che cosa sta accadendo in questo momento nel paesaggio che circonda il Solar Strand?
RS: L’integrazione del Solar Strand nel nostro paesaggio è coerente all’evoluzione della consapevolezza di come si possa rendere il campus un luogo più bello, più piacevole e più sostenibile. Il nostro ‘Campus Nord’, dove si trova il Solar Strand, nasceva da un piano regolatore nettamente modernista degli anni Sessanta che, tra l’altro, prevedeva la pervasiva riorganizzazione della topografia del sito. I terreni alterati si sono dimostrati un substrato povero per lo sviluppo di una sede universitaria. Guardiamo al lavoro che ci attende come a un restauro e a una riparazione, come prova l’ampiezza delle aree di riqualificazione che abbiamo deliberato. Già mantenute formalmente a prato, queste aree oggi sono libere di ristabilire un’ecologia più funzionale e schiettamente estetica.
Il progetto comprende anche l’ampio riciclo e la destinazione a nuovi usi di certi materiali del campus, tra cui mille tonnellate di mattoni e di calcestruzzo provenienti dalla ristrutturazione del campus, che oggi costituiscono la pavimentazione a mattonelle e lastricato dello Strand. Abbiamo anche aggiunto altri alberi dentro e intorno allo Strand per rafforzare la geometria del sito. Il criterio di sfalcio del Solar Strand, proposto da Walter e poi messo a punto insieme con i giardinieri del campus, rispecchia un’impostazione più efficiente e sostenibile della manutenzione del paesaggio del campus. Trasforma anche i giardinieri in artisti che, nel falciare, progettano. Accanto alla riqualificazione ecologica dell’Università di Buffalo c’è una serie di nuovi progetti edilizi che ha significativamente valorizzato il campus grazie alla qualità architettonica e progettuale.
AS: Walter Hood cita spesso l’importanza in ogni progetto delle persone, oltre che del paesaggio. È facile immaginare che il Solar Strand abbia suscitato ‘reazioni’ nel pubblico e nel paesaggio stesso. Tu sei un testimone oculare di questo fenomeno. Come il Solar Strand ha cambiato la vita del campus?
RS: Abbiamo deciso da subito che questo era un luogo che doveva essere occupato, abitato: ogni decisione è stata rivolta a equilibrare la funzionalità con la forma in funzione dell’accessibilità. Per esempio la concezione di Walter ha adottato la metafora della rappresentazione del DNA con dei blocchi di gel per creare un componente modulare coerente con la forma della maggior parte delle installazioni solari. Se si fosse fermato qui l’astrazione non avrebbe comunicato l’esperienza tridimensionale a scala umana. Perciò gli si può guardare attraverso e intorno. Quando ci si muove intorno ai doppi e tripli allineamenti, nel paesaggio c’è un ritmo. Dall’interno si è sempre ancorati a vedute e percezioni molteplici. Dall’esterno non si vede un monolite, ma un gradiente che sale e scende. Per di più quella che potrebbe sembrare puramente una funzione tecnica (due tubi d’acciaio che corrono lungo lo Strand racchiudendo un’ampia rete di cavi) è anche un elemento umano, perché i visitatori si sono abituati a usarla come sedile o poggia piedi. In certi punti la tubatura d’acciaio è arretrata in modo che i visitatori possano avvicinarsi e toccare i pannelli.
Le due maggiori unità di pannelli dello Strand si innalzano a otto metri e mezzo, formando uno spazio pubblico allargato simile a una cattedrale. Lo consideriamo un laboratorio attivo, un’aula all’aperto. Abbiamo già invitato i bambini delle scuole a una visita e vi abbiamo riunito gruppi di studenti di discipline diverse come l’architettura, la biologia e l’ingegneria. Il 22 aprile 2013 – la Giornata della Terra – abbiamo celebrato l’apertura al pubblico dell’installazione con una “festa dello Strand”, completa di musica dal vivo, piatti tipici e visite guidate. Abbiamo avuto quasi quattrocento ospiti, giovani e anziani, che giravano per i sentieri per esplorare, toccare e scoprire. Il Solar Strand è diventato un luogo di impegno, d’ispirazione, di apprendimento e di divertimento nella natura.
AS: L’esperienza del campus dell’Università di Buffalo è una tra le più interessanti ricerche sperimentali sul fotovoltaico. Quali difficoltà avete dovuto superare e che cosa potete consigliare a chi (architetti e amministratori) vuole seguire la stessa strada?
RS: Trovare l’equilibrio nella tensione tra un progetto per certi versi industriale e un’opera d’arte è stato una sfida difficile. La NYPA, bandendo un suo concorso, aveva già scelto un costruttore ed era pronta a installare un tradizionale impianto solare a file parallele. Con il procedere del progetto divenne chiaro che il costo reale, anche nel progetto convenzionale, avrebbe superato il budget.
Uno dei primi compromessi consistette nel ridurre la capacità totale da 1,1 Megawatt a 750 kilowatt. Ma c’era da negoziare ben altro. Ci siamo riusciti soprattutto perché tutte le controparti (la NYPA, i responsabili dell’università, il costruttore e soprattutto l’artista) sono state abbastanza elastiche da portare a termine il lavoro. E stato stimolante vedere Walter prendere decine di decisioni critiche riguardo ai cambiamenti che si potevano fare per risparmiare (e vedere a quali cambiamenti ha dovuto opporsi) per arrivare a realizzare la sua concezione artistica. Come accade spesso con l’arte a destinazione pubblica il contesto misto di tecnologia, cultura, politica, finanza e arte fa parte della performance.
Infine è stato fondamentale il ricorso a un concorso di progettazione pubblico. Ha inserito una fase di attenta elaborazione in un progetto che sarebbe stato altrimenti ‘bell’e fatto’. Il concorso ci ha aiutato a risolvere il conflitto tra i rappresentanti dell’università e quelli della comunità, che consideravano “brutto” il progetto originario, e chi lo difendeva esclusivamente in vista della diffusione delle energie rinnovabili. Il concorso ha creato un terreno comune dove entrambe le parti potevano veder rispecchiati i propri interessi. E in conclusione abbiano sorpreso entrambe le parti e abbiamo presentato un progetto molto più interessante di quanto chiunque potesse immaginare.