Vera Sacchetti: La prima cosa che ho notato, al mio arrivo, è stata questa parete verde. Dice molto sulla trasformazione del paesaggio e mi ricorda anche la Land Art. Qual è l'idea alla base di questa installazione?
Paula Nascimento: L'idea originaria era di cambiare tutto senza cambiare nulla. E ispira tutto il resto dell'opera.
Stefano Rabolli Pansera: Questo è l'essenziale: il verde è dovunque, è una delle parole che oggi gli architetti usano continuamente. L'intenzione, in definitiva, è la critica del concetto di verde come parco, come tempo libero, come divertimento, che oggi è un luogo comune stabilito dai grandi dogmi dell'urbanistica. In passato non era così. Nel Medioevo i giardini in realtà erano spazi coltivati, domesticati. Nel Cinquecento il giardino rinascimentale era una forma di potere, di organizzazione del territorio. Poi fu la volta del giardino pittoresco, e oggi pensiamo a un polmone verde della città. La nostra proposta è una critica di questo concetto. Usare il verde come momento non definito, non solo spazio pubblico, non solo coltivazione, non solo infrastruttura, ma tutte e tre le cose insieme. Questa nuova possibilità è profondamente coerente con il nostro concetto della natura interiore della città africana, città della trasformazione, in costante divenire. La nostra proposta di Common Ground è un proposta in trasformazione.
E queste piante – il bambù e l'Arundo Donax – sono autoctone dell'Angola?
PN: Crescono ovunque ci sia un clima temperato. Per esempio non è che pensiamo al bambù in Angola, ma là c'è il bambù e quindi ci può anche crescere l'Arundo Donax.
Quindi ce ne stiamo seduti in uno spazio in negativo. In realtà siamo in una casa. Come è stato definito il progetto?
SRP: Lo spazio è stato mappato in un laboratorio tenuto all' Universidade Metodista de Angola.
PN: Abbiamo portato quindici studenti nel quartiere di Casenga e ci siamo entrati, abbiamo fatto i rilievi degli spazi abitativi, abbiamo parlato con la gente, abbiamo scattato fotografie: una mappatura culturale e architettonica completa dello spazio. E poi abbiano preso il frammento di spazio del quartiere in cui ci trovavamo ed è fondamentalmente lo spazio che vedi qui: è il modello a grandezza naturale di una casa che può ospitare da dieci a dodici persone.
Quindi avete trasferito qui la mappa e ne avete riempito gli interstizi di verde. A che servono le piante?
PN: Le radici dell'Arundo Donax sono molto fini e hanno la proprietà di filtrare l'acqua. Ovviamente non è acqua potabile, ma diventa acqua riutilizzabile. Le piante crescono di un metro al mese e sono uno dei maggiori assorbitori di CO2 che ci siano. Una volta tagliate si possono bruciare e trasformare in biomassa, ovvero in energia utilizzabile per le case.
SRP: È una questione di cultura, nel senso che non solo in Africa, ma in tutto il mondo, spesso per il pubblico, per le autorità, i modelli culturali vengono imposti come progresso e come futuro. In Africa il modello americano della comunità chiusa e il modello cinese del grattacielo molto spesso vengono assunti come immagine del futuro, del progresso. Il nostro modello non è contrapposto a questo, ma è invece alternativo, complementare a questi modelli. Sono idee proiettate sulla città africana e spesso non riusciamo a cogliere la ricchezza, l'intensità di ciò che viene spesso definito "città informale": l'abbiamo chiamato, ispirandoci al nostro personale punto di vista, Morphing City, la "città della trasformazione". E vorrei sottolineare che questa città, e il relativo modello, non possono essere associati a una destinazione promiscua, a un insieme di funzioni precise e differenti poste sotto lo stesso tetto. Nella città della trasformazione lo spazio diventa continuamente "altro da sé". È qualcosa di veramente inafferrabile, se usiamo le tradizionali categorie della zonizzazione. Perfino l'idea cartesiana di spazio è qualcosa di fisso, definito e misurabile. Nella nostra visione della città africana lo spazio diventa un momento transitorio di un continuo divenire, e quest'opera riguarda questa idea di realtà multiforme, continuamente cangiante, metamorfica.
PN: Sì, sarebbe adatto. La sua bellezza sta nel fatto che è talmente privo di caratteristiche formali da potersi adattare a varie parti della città, e magari del paese. Idealmente ci piacerebbe metterlo in opera a Luanda e creare laggiù un vero e proprio territorio comune. Potrebbe comunque essere installato non solo tra un edificio e l'altro, ma in spazi dove ci siano fognature all'aperto. E allora quel che si crea è che perfino la fogna diventa uno spazio pubblico. Al momento è un accumulo di spazzatura, di malattie. E la gente ci gioca intorno. Ma immagina se ci fossero delle piante a filtrare l'acqua, se dei programmi di formazione convincessero la gente a non buttarci più la spazzatura. Allora si potrebbero creare questi parchi interstiziali, uno spazio pubblico nella città.
PN: Lo scopo ultimo del progetto è la sua realizzazione sia in un piccolo villaggio come prototipo, sia nella città, oppure anche come progetto complementare, come ha detto Stefano, di qualunque progetto di nuova urbanizzazione. Le istituzioni locali sono state entusiaste del progetto, ma naturalmente nella realizzazione di un progetto come questo ci sono alcuni problemi: legali, economici e di altro genere.
SRP: Credo che, come sottolinea Paula, sia davvero un problema culturale. La tecnologia infatti è già in uso in altre parti dell'Africa, e funziona. Stiamo davvero proponendo un modello culturale, ed è questo il motivo per cui era tanto importante per noi presentare il lavoro alla Biennale – su un palcoscenico di tanto prestigio – suggerendo un nuovo paradigma per pensare la città: un nuovo modello mentale, un nuovo orizzonte, in cui la natura non è contrapposta all'infrastruttura, ma si fonde con essa.
SRP: Credo che sia un modo di affrontare quest'idea della trasformazione che secondo noi costituisce un buon grimaldello, una buona chiave per capire tutto quanto, ma che non sia comunque l'unico. Altre letture sono possibili. Le opere realizzate di recente in altri contesti e in altre città informali, per esempio le favelas di Rio de Janeiro, sono molto interessanti. Sono molto differenti dai musseque della città africana, si tratta di situazioni totalmente diverse, ma hanno in comune con noi una sensibilità che parte dall'analisi dell'"intelligenza specifica" di questo tipo di città e poi va avanti. Credo che questa sia un proposta che si muove in una particolare direzione, che rifiuta le imposizioni di modelli stranieri, ma che non sia l'unica e non sia esclusiva, ma che possa funzionare molto bene.
PN: Specialmente perché, anche se siamo in grado di identificare certi paradossi della città africana, non possiamo dire che esista un'"unica" città africana. Luanda è un paradigma, posso trovare somiglianze tra Luanda e Lagos, per esempio, ma ci sono anche grandi differenze. E così ci sono altri modi e altri modelli che potrebbero risolvere questi problemi della città.