Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1065, febbraio 2022.
Per ragioni a me stesso per primo misteriose, nell’autunno del 2016 pensai di trasferirmi sul Mar Baltico per scrivere. Sapevo che si sarebbe trattato di un soggiorno di poche settimane, ma che sarebbe stato sufficiente per stanare un romanzo che da troppo tempo sfuggiva agli artigli delle mie parole. Perché proprio sul Baltico? Non saprei dire con esattezza, né c’erano ai tempi motivi più specifici se non quello di starmene lontano, di andarmi a posizionare ai margini del foglio. Si trattava tra l’altro di un Baltico minore, un ramo secondario: niente Scandinavia, niente fiordi, niente ghiaccio polare. Solo un piccolo affaccio, con i piedi ben saldi nella Germania occidentale.
Andrea Bajani: una casa affacciata su un Baltico minore
Il romanziere racconta i suoi soggiorni a Kiel, due brevi periodi, di dieci giorni ciascuno, in quello che descrive come “poco più di uno stanzone, che però aveva tutto per sembrare una casa”. Il tentativo: andare a stanare un romanzo ai confini dell’Europa.
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- Andrea Bajani
- 21 febbraio 2022
Trascorsi a Kiel due periodi di una decina di giorni, l’ultimo a ridosso di Natale. Ci ero stato l’anno prima fugacemente per la presentazione di un libro. Da Torino si trattava di raggiungere prima l’aeroporto di Malpensa, atterrare ad Amburgo, e da lì trasferirsi 100 km chilometri più a nord, in quell’avamposto a due passi dalla Danimarca. Il totale erano due pullman, un aereo e 12 ore da casa a casa.
La casa da cui partivo era una palazzina Liberty nel centro di Torino, quella finale un piccolo edificio di due piani, una struttura in cemento armato costruito credo nella prima metà del Novecento. Dalla stazione dei treni di Kiel, dove l’ultimo pullman mi lasciava, c’era da prendere ancora un bus che costeggiava il canale di Kiel. E quando si intravedeva il faro di Holtenau sapevo che mancava poco. Al capolinea ero arrivato.
Non ho capito, a tutt’oggi, come mai volessi andare lì su quel ramo minore del Baltico, né lo capiva Frau Tekla quando la sera, ogni tanto, mi sedeva accanto nel seminterrato mentre aspettavo che la spia del bollitore si spegnesse.
L’appartamento era poco più di uno stanzone, che però aveva tutto per sembrare una casa. Una moquette grigia in terra che copriva il pavimento, e una struttura a L che consentiva di pensare che ci fossero due vani, uno per la zona giorno e uno, dietro l’angolo, per la zona notte. Il che, nella pratica, si traduceva in un letto con un comodino da una parte e dall’altra parte del locale una scrivania con una sedia. Due poltroncine in vimini e un tavolino basso recintavano una specie di salotto immaginario. Sulla copertina del volume lasciato sopra il tavolino c’era quel faro che dalla finestra non vedevo. Non ho mai saputo chi vivesse in quell’alloggio quando io non c’ero, ma tutto ciò che aveva era chiuso a chiave in un armadio. Quello che avevo io, invece, restava dentro la valigia aperta accanto al letto o distribuito nella stanza e dentro il bagno cieco.
Per mangiare scendevo in uno stanzino nel seminterrato, dove c’era un grande frigo, due piastre elettriche, un bollitore e un forno a microonde. Se ne occupava Frau Tekla, una signora polacca emigrata lì per via del fatto che il marito lavorava in mare. Insieme avevano fatto di quel fabbricato un rifugio per i lavoratori del Baltico, una specie di missione, con un crocefisso all’ingresso e una cappella accanto alla cucina, dove raccomandarsi prima di tornare sulla nave. Non ho capito, a tutt’oggi, come mai volessi andare lì su quel ramo minore del Baltico, né lo capiva Frau Tekla quando la sera, ogni tanto, mi sedeva accanto nel seminterrato mentre aspettavo che la spia del bollitore si spegnesse.
Ogni tanto comparivo, il tedesco imperfetto che entrambi parlavamo ci faceva sentire a casa. Per il resto stavo chiuso in camera a scrivere o la salutavo con un cenno quando uscivo a camminare. Di solito andavo a sedermi sotto il faro, per vedere transitare le navi lentamente sul canale, lì dove il Baltico poi diventava, aprendosi tra Scandinavia e Regno Unito, Mare del Nord. Quando tornavo dai miei vagabondaggi serali, Frau Tekla si era già ritirata in casa, vedevo la silhouette sua e di suo marito sul divano e il baluginio del televisore nel semibuio della stanza. Non ho mai scritto quel romanzo che avevo pensato di andare a stanare in quella stanza ai confini dell’Europa. Doveva essere, nelle mie intenzioni, un romanzo sul perdono.
Avrei dovuto dirle che il punto non era scrivere un romanzo sul perdono, ma andare fin lì per provare a farlo e poi fallire, accettare di non avere niente da dire.
Da anni raccoglievo storie, prendevo appunti sul taccuino, incontravo persone che mi consegnavano storie di dolore e di liberazione, ciascuno a modo proprio cercava di trovare un rapporto con il proprio nemico interiore. Ogni mattina, in quella casa sul Baltico, accendevo il computer e digitavo parole che però non erano mai abbastanza per riuscire a diventare un magnete di senso, a chiamare a raccolta quello che credevo di avere da dire. Finito di scrivere, camminavo lungo la banchina per chilometri, fino ai grandi cantieri dove costruivano sommergibili militari che poi avrebbero mandato in mare, chissà dove, chissà per quale conflitto non detto della geopolitica mondiale.
Quasi ogni mattina mi andavo a sedere in un caffè poco distante dal faro. Me ne stavo alla finestra con un cappuccino, esausto dopo tanto cercare con le parole qualcosa che probabilmente andava cercato altrove, in una sorta di pagina bianca interiore. Di fronte a me, nel gelo di dicembre, c’era un albero di Natale assicurato alla banchina con i tiranti, da ogni lato, perché il vento del Baltico non se lo portasse via. Alle sue spalle, le grosse navi commerciali sfilavano come alligatori verso il mare.
L’ultima volta che Frau Tekla mi ha scritto era ormai tre anni fa per ricordarmi, di nuovo, che avevo lasciato nella sua cucina il taccuino, che me l’avrebbe spedito volentieri se le mandavo un indirizzo. Non ricordo se le ho mai risposto, penso di sì ma senza menzionare il quaderno degli appunti e senza fornire un recapito postale. Avrei dovuto dirle che il punto non era scrivere un romanzo sul perdono, ma andare fin lì per provare a farlo e poi fallire, accettare di non avere niente da dire. Sono sicuro di averle mandato una cartolina da Torino, erano anni che ci voleva andare.