Gli strumenti musicali sono costruiti secondo una architettura nascosta che ne determina il suono e le vibrazioni. È da questa osservazione che nasce il progetto “Architecture in Music” del fotografo neozelandese Charles Brooks, una esplorazione attraverso gli angoli e le forme più piccole degli strumenti musicali. Il fotografo, che ha un passato da violoncellista tra l’Asia e il Sud America, si è domandato: come viene prodotto un concerto?
“Volevo che lo spettatore potesse immaginare di abitare lo strumento mentre questo viene suonato dai musicisti. Insomma, che potesse vedere la fonte di quelle sensazioni amplificate. Introducendo una macchina fotografica dentro gli strumenti si riescono a vedere i segni del tempo, la bellezza e la precisione di questa straordinaria camera d’eco che di solito è nascosta alla vista” spiega Charles Brooks.
Guardare dentro gli strumenti è come sbirciare nella loro anima. “Per me le superfici interne, spesso così ruvide, mostrano qualcosa di più sulla personalità dello strumento rispetto al rivestimento esterno, sempre lucido. È affascinante guardare dentro gli strumenti più antichi, andare a scoprire lo spazio che ha vibrato durante i concerti, magari per centinaia di anni.”
Gli strumenti – le loro forme interne – dell’orchestra di “Architecture of Music”, una volta messi di fronte alla macchina fotografica assumono sembianze quasi astratte. La tecnica utilizzata è stata l’opposto della tilt-shift, quel gioco di lenti e sfocature attraverso cui gli elementi a grandezza naturale vengono percepiti come molto piccoli e quindi, il più delle volte, decontestualizzati. Al contrario, Charles Brooks ha ingrandito elementi di soli pochi centimetri, ottenendo però lo stesso in grado di disorientare, decontestualizzare – e naturalmente affascinare – l’osservatore.
“Dal momento che un’immagine di qualcosa di grande, se ripresa con una profondità di campo molto bassa sembrava piccola” spiega il fotografo “mi sono chiesto se un’immagine di qualcosa di molto piccolo, ripresa completamente a fuoco, avrebbe potuto sembrare grande.”
È un effetto ottico, certo, ma anche un meccanismo che ha a che fare con la psicologia legata alla fotografia. “Sì, sono sempre stato interessato alla psicologia della fotografia. La capacità di un singolo fotogramma di congelare un momento, toglierlo dal contesto e presentarlo come qualcosa di nuovo. Certamente, nonostante l’utilizzo di lenti molto avanzate, ho dovuto risolvere grossi problemi tecnici. Negli gli scatti al pianoforte, per esempio, avevo meno di mezzo centimetro di nitidezza prima che tutto cominciasse a sfocarsi. Ho superato questo problema scattando centinaia di foto, spostando lentamente la messa a fuoco da dietro a davanti, e infine combinando solo le parti a fuoco con Photoshop.”
Un processo complesso, che entra nei dettagli dell’immagine, al confine tra limiti della tecnica e necessità di costruire una percezione. “La cosa interessante per me” conclude il fotografo “è che siccome ero sulla scena, ero entrato in modo molto profondo nelle forme degli strumenti, di conseguenza per me l’effetto ottico non funzionava più, si era come rotto per la troppa osservazione, non percepivo più gli spazi come grandi. Ho dovuto mostrare le foto ad altri per confermare che il sistema aveva funzionato.”
Immagine in apertura: Charles Brooks, “Architecture in Music”, la squisita architettura di Steinway, parte 2. L’azione di un pianoforte a coda Steinway Model D. Fotografato da Lewis Eady’s ad Auckland. Courtesy Charles Brooks