Tra il 1997 ed il 2005, ogni settimana Mattia Zoppellaro ha raggiunto i rave organizzati tra Bologna, Torino, Marsiglia, Montpellier, Barcelona e Londra per fare l’unica cosa che non si poteva fare tra quelle vallate e quegli edifici industriali occupati: fotografare. Non sono immagini rubate, sono fotografie nate in un ambiente dove non c’era alcuna intenzione, né necessità, di condividere l’esperienza con l’esterno.
Per quasi dieci anni, Mattia Zoppellaro ha stampato ed archiviato migliaia di immagini in bianco e nero, tutte scattate in analogico, pellicole ad alta sensibilità e lunghi tempi di posa per ritratti da cui emerge la fisicità di un’epoca distante anni luce dal mondo digitale che sarebbe arrivato pochissimi anni dopo. Oggi questo lavoro è raccolto in un libro, Dirty Dancing, pubblicato dall’etichetta Klasse Wrecks, foto distribuite da Contrasto, dove questa “Golden Age of Rave” viene raccontata con la consapevolezza che “come ogni movimento, anche questo ha avuto un inizio, un’età dell’oro e una fine.”
Come si raggiungeva un rave nel 1997?
Il 1997 era l’alba di internet e dei telefonini. Per andare un rave, per esempio intorno a Bologna, prima dovevi recarti in due o tre posti, c’era Piazza Verdi, o la Montagnola, o qualche altro punto di ritrovo. Qui individuavi, soprattutto dall’aspetto, alcune persone che potevano avere informazioni. Loro ti davano un flyer con il numero di telefono e un orario. Tu chiamavi quel numero e ti veniva indicata una location, poteva essere un distributore di benzina chiuso, l’uscita di un’autostrada, e a una certa ora ti trovavi lì con altre persone. Dopodiché partivano queste carovane di automobili dirette nelle zone industriali, o sui colli. A questo punto, per capire dove fosse effettivamente il rave, abbassavi il finestrino, spegnevi la musica della macchina e cercavi di sentire il suono che veniva da fuori. Insomma, questo per dire che era un’esperienza molto empirica, non esisteva il GPS, non c’era nulla di digitale. Questo racconto è l’evidenza di un cambiamento dei rapporti con la tecnologia.
Tu hai introdotto la macchina fotografica in luoghi dove non poteva entrare, non tanto per questioni di illegalità, ma per il modo in cui le persone vivevano quell’esperienza.
Il rapporto con la macchina fotografica è cambiato totalmente rispetto a quel periodo. Né in meglio, né in peggio, è semplicemente cambiato. Il fatto di avere la macchina fotografica nel telefonino, oggi, pone tutti nell’atteggiamento di poter essere soggetto per una foto. In quel periodo, le persone erano meno abituate a posare. Al mio primo rave, sono entrato con una macchina analogica con la messa a fuoco manuale. Era un lavoro molto lento, le condizioni di luce erano davvero difficili. A un certo punto, ho messo il cavalletto in mezzo alla pista e ho iniziato a fotografare le persone. Devo dire che anche il mio abbigliamento non c’entrava nulla in quel contesto, avevo i jeans e la camicia a maniche corte. Dopo mezz’ora esco, si avvicina una ragazza e mi chiede se sono della Digos. Le ho mostrato la mia carta di identità, non ero nemmeno maggiorenne, per cui hanno iniziato a capire che ero davvero lì, con il mio cavalletto, per fare fotografie.
Come hai fatto a farti accettare?
Usavo una tecnica che ho imparato da uno dei miei fotografi preferiti, Bruce Davidson. Lui per realizzare “East 100th Street”, il suo progetto su Harlem, andava a fotografare per strada, poi il giorno dopo portava a queste persone le stampe delle foto, gliele regalava e creava un contatto, veniva invitato ad entrare in casa. Anche io, ogni domenica tornavo a casa dal rave, stampavo le foto in una piccola camera oscura e la settimana successiva le regalavo ai ragazzi che avevo ritratto. Questo mi ha permesso di guadagnare la loro fiducia.
Questo racconto è l’evidenza di un cambiamento dei rapporti con la tecnologia.
Questo 2021 è un buon momento per mostrare un lavoro in cui c’è tutta quell’aggregazione a cui non siamo più abituati?
Sì, insieme a Lucas Hunter di Klasse Wrecks e a Moritz Gunke di We Make It Berlin, che ha curato il progetto grafico, abbiamo pensato che fosse il momento giusto per uscire con una pubblicazione che mostrasse il mondo come era fino qualche tempo fa. Assembramenti, persone che ballano vicine, condizioni igieniche precarie. È molto in contrasto con quello che stiamo vivendo adesso. La fotografia è uno strumento che ti mostra ciò che è accaduto e che non accadrà più. Mi piace questa sua peculiarità, la fotografia è già passato.
In questo lavoro c’è l’incontro tra due mezzi espressivi. La musica come strumento per aggregare, per generare l’evento, e la fotografia che crea la memoria.
La musica era parte integrante del movimento, era la cosa su cui si fondava questa contro-cultura. Nelle fotografie, la musica esce fuori dal movimento dei corpi, abbiamo pensato di esasperare questo movimento con la scelta della sequenza fotografica. La fotografia non ha un tempo di fruizione: mentre un pezzo musicale è determinato da un inizio e da una fine, nella fotografia sei tu a decidere per quanto tempo osservarla. Insomma, è qualcosa di molto più soggettivo.
Inoltre, la fotografia racconta che il rave era anche un’esperienza visiva.
Era un movimento, quindi per forza ci si confrontava con il cool, con le tendenze, con i codici estetici. Ed era giusto e bello che fosse così. Le esperienze non dovevano essere solo musicali, ma anche visive. La forma di espressione individuale diventava un codice. E, naturalmente, basta un attimo perché diventi una forma di omologazione, uno standard che rende tutto po’ più noioso.
Assembramenti, persone che ballano vicine, condizioni igieniche precarie. È molto in contrasto con quello che stiamo vivendo adesso.
Quando parli della “Golden Age of Rave”, c’è qualche nostalgia?
No, è una cosa fisiologica, non una nostalgia. Ogni periodo ha un inizio, un’età dell’oro e poi l’inevitabile decadimento, è successo per tutte le scene. La scena rave è partita ad inizio anni ’90 e si è spenta con il nuovo millennio. È successo più o meno nel 2005, anno in cui si concludono gli scatti di questo libro e la mia esperienza personale in quel mondo.
Si è spenta o si è trasformata in qualcos’altro?
Ci sono dei revival, e ci sono brand, da Etro a Burberry, che prendono spunto dalla cultura rave anni ’90. Però, appunto, sono revival.
È quindi il momento per storicizzare. Quando hai riguardato le foto durante la lavorazione del libro, hai trovato significati diversi rispetto a quei giorni in cui le stampavi?
Forse proprio l’uso della tecnologia, del digitale, dei telefonini. Oggi quando fai una foto ad un gruppo di persone, scopri che molte di loro stanno guardando il telefono. Qualcuno dice che perdiamo tanto tempo con le tecnologie, ma ricordo che una volta questo tempo lo perdevamo in altro modo, pensa al tempo per contattare una persona. Credo che oggi questa dispersione di tempo si sia semplicemente spostata da un’altra parte. E poi, ho trovato molto diverso l’atteggiamento delle persone nei confronti della macchina fotografica. Oggi è molto più consapevole, sai già come verrai in foto, che effetto otterrai con una certa espressione. Tutta questa predisposizione, nelle foto che ho scattato io, mancava.
Qualcuno dice che perdiamo tanto tempo con le tecnologie, ma ricordo che una volta questo tempo lo perdevamo in altro modo, pensa al tempo per contattare una persona.