Designer e docente di Social design e pratiche relazionali alla Naba, nata a Benevento, ma stabilitasi a Milano dopo avere vissuto a Istanbul e New York, Sara Ricciardi sfugge alle definizioni univoche. Tra i suoi progetti ci sono una collezione di manubri che indaga sul peso dei materiali, ma anche una serie di vasi di cemento, installazioni e pezzi unici per gallerie. Alla Milano Design Week 2021, la incontriamo nel distretto delle 5Vie dove propone invece una performance itinerante (Urban Trader’s Revolution) che, ispirandosi alla figura del venditore ambulante, celebra la strada, il contatto fisico, la relazione tra le persone e tra le persone e lo spazio. Lo definisce un “attacco urbano pubblico”. È design? Forse. Ci spiega perché.
Perché una performance?
Da quattro anni ho una relazione quasi matrimoniale con 5Vie e ogni anno mi chiedono di attivare un messaggio all’interno del quartiere. Quest’anno, volevano che io presentassi dei miei pezzi, eppure ho sentito che in questo specifico momento, volevo fare un attacco urbano pubblico, sulla persona, sul contatto. Ho ripreso tutte quelle fascinazioni che fanno da sempre parte del mio lavoro – l’ambulante, il nomade, l’andare in strada, il teatro, l’edicola votiva (io vengo dal sud) – che riescono a mettere in moto le viscere, l’identità della persona. Sentivo la necessità di fare un’azione in strada e per questo ho scelto la materia della performance, tramite questo allestimento, questo carretto ambulante che è quasi come un tempio, un negozio di chincaglierie barocco, addobbato con fiori, dove distribuire poesie e cartoline. Volevo mettere in scena un’emozione, una relazione con le persone. È musica ed è spettacolo: sul palcoscenico della nostra vita c’è bisogno che le persone mostrino la loro identità, soprattutto dopo tutta questa chiusura e tutto questo controllo.
E anche dopo tutta questa distanza…
La distanza, certo, eppure io sono convinta che la cultura, l’entrare in relazione con le altre persone sia fondamentale. La cultura è la base.
Come pensi di coinvolgerle, le persone?
L’arte della relazione è straordinaria, perché è sempre mossa da empatia e improvvisazione. Non devi schematizzare, non dobbiamo sempre stare dentro le griglie. Una persona è una persona. La guardi: cosa succederà? Lasci che qualcosa accada. Quella è la parte fondamentale. Non so cosa succederà. E ogni volta la magia si annida proprio in quello spazio di ambiguità, di non sapere cosa succede.
Non bisogna avere paura quindi?
Mai. Diciamo che siamo emozionati. Certo che ho paura delle reazioni, però le vado a cercare perché sono fondamentali.
Ma questo è design?
Design per me è progettazione e ciò che desidero di più in assoluto non è disegnare un oggetto, ma disegnare la relazione che intercorre tra le persone e la materia. Tra te e lo spazio. A me interessi tu. E poi la forma prossemica del tuo movimento e della reazione emotiva: questo è spettacolo. La materia, lo spazio, la progettazione mi accompagnano per arrivare alle persone, sono un medium.
Cosa ti rende felice come designer?
Dico sempre che mi piace fare oggetti che invitino a riflettere. Non sono nemmeno così interessata al fatto che si vendano, ma al fatto che producano uno stimolo. Come una fioritura interna che ti fa pensare: “Ah, però… forse… magari… quesito”. Quello mi interessa è regalare quesiti e nuovi scenari onirici. Ne abbiamo tanti, magari non ti piace, magari invece sei interessato. In ogni caso, provoco una reazione.
Ti definiresti una provocatrice?
In questo momento, mi è venuta in mente un’immagine molto precisa: provocare ha sempre un’accezione aggressiva. Pizzica, sembra impertinente. Se dovessi immaginarmi come una provocatrice, mi immaginerei con una piuma, che vengo a farti il solletico. Qualcosa di più sottile, sofisticato. Oggi è troppo facile creare uno slogan e dare un pugno; io, invece, voglio sedurti, è una cosa diversa.
Che cosa ti ha insegnato questo periodo di pandemia?
È un periodo straordinario, difficilissimo, di crisi e, come tutte le crisi a livello personale e globale, mi suggerisce da tutte le parti, come un dolby surround di possibilità, che devo prendere altre forme. Mi dice: “Prova, modifica, trasformati”. Ecco perché, oggi, voglio parlare di trasformismo, ecco perché con me ci sono due drag queen, le Karma B. Quanta folla c’è dentro di te? Quante identità hai? Le maschere, a volte, sono la parte più vera di noi. Le scegliamo e una non elimina l’altra. Essere contradditori è interessante, percorriamolo. Un carretto “scenografato”, due performer, l’invito, la poesia, il racconto… È design? È l’unica cosa che conosco.
In questo momento, poi, stiamo tutti trascorrendo molto tempo all’aperto e la strada è tornata al centro dell’attenzione.
Da sempre, invito le persone a scendere in strada, insegno design relazionale, vado in strada con gli studenti, lavoro nelle periferie. Devi lavorare con la gente, nelle strade, dare e ricevere. Vengo dal teatro improvvisato, che si fa in strada e che è il mio preferito, perché succede sempre qualcosa e devi essere sempre attento, concentrato, voglioso. Seguo questa dinamica perché la città è la tua casa, è il tuo palcoscenico.
Dopo tanta casa, torniamo in strada…
La strada è una propaggine della casa, la dobbiamo vivere come tale. Quella panchina, quel giardinetto, quell’albero, quell’anfratto sono tuoi luoghi, li devi amare come ami la cameretta di casa tua. Questo passaggio è importante.
Ultima domanda: che effetto fa essere di nuovo al Salone?
Strano: sento che è difficile a differenza degli altri anni, sento di dover donare questo slancio. È come un seme che, quando deve aprirsi, ti squarcia e fa anche male, non è indolore. Ma provoca felicità assoluta, è una nuova fioritura. Sono qui, sono estasiata dai contatti, dalle dinamiche che stanno succedendo, dagli amici, dalle aziende, dal fermento di una città che vuole sentirsi viva e pulsante.