A partire dalla sua fondazione nel 1961 – nella sua originaria incarnazione di Settembre, e dal 2005 nella sua versione extraurbana di Aprile voluta da Massimiliano Fuksas – il Salone ha sempre operato come se fosse una rivista patinata anche in tempi precedenti all’avvento di internet. Come una rivista di moda deve saper essere sufficientemente sofisticata da attrarre la pubblicità di Prada e Dior, così il Salone ha saputo imporre uno standard capace di fare apparire come poco credibile una fiera di interni senza Vitra o Cassina, al pari di un autosalone privo di BMW. Analogamente, tutti quei brand che ambiscono a seguire le orme di Dior e Prada investono nell’acquisto di spazi pubblicitari su testate come Vogue. Non è infatti il costo d’ingresso o il prezzo di copertina dove risiede la magia, ma è l’appeal per le pubblicità o, nel caso del Salone, la presenza regolare di clienti disposti a investire in stand imponenti certi che possano attrarre il pubblico desiderato.
Se le riviste dispongono dei cosiddetti cimiteri pubblicitari, il Salone ha sviluppato una geografia per cui determinati spazi, piani e adiacenze attirano il pubblico.
Altri ambienti sono invece più simili al Triangolo delle Bermuda. L’ammissione alle parti più desiderabili del Salone richiede infatti investimenti a lungo termine. Un’azienda per assicurarsi il posto giusto deve possedere una striscia ininterrotta di presenze, anno dopo anno; oltre a dover ricevere il tacito benestare dei vicini di stand e accettare l’obbligo di una graduale progressione da una posizione periferica a una di rilievo.
Queste circostanze hanno condotto all’effetto paradossale secondo cui la maggior parte delle novità interessanti e significative degli ultimi 40 anni di Salone sono accadute fuori delle sua mura, portando linfa vitale a diverse aree meno note di Milano. Le aziende desiderose di essere conosciute, e che non provengono dal più tradizionale circuito milanese, hanno infatti dovuto lavorare duramente per affermarsi. La celebre esplosione di Memphis avvenne a sorpresa in una sera di Settembre del 1981 in uno showroom di cucine nei pressi del Duomo. Una massa che pareva fatta di almeno 2.000 persone si era accalcata attorno alla libreria Carlton di Ettore Sottsass, mentre beveva vino da bottiglie brandizzate Memphis e non poteva trattenersi dal discutere dei nuovi e folli oggetti che vedevano per la prima volta.
Meno note ma altrettanto affascinanti furono due mostre allestite nel 1988 e 1989 da Paolo Pallucco, imprenditore e designer visionario e anticonformista. Sua la produzione della linea d’arredo Comme des Garçons, oltre a essere responsabile assieme a Mireille Rivier della progettazione della Barba d’Argento, una poltrona realizzata mediante catene di acciaio che ricorda uno strumento di tortura particolarmente elegante.
Pallucco ebbe anche l’intuizione di utilizzare l’ormai abbandonato mattatoio municipale di Milano, con tutti i suoi graffiti a sfondo pornografico. Lavorando assieme a Peter Pabst, stimato scenografo della compagnia di danza Pina Bausch, riempì con dei fiori gli ambienti di cemento grezzo per inscenare quella che lui definì la Morte di un Angelo (Death of an Angel), un’installazione di rara bellezza e ricca di drammaticità basata su una scaffalatura ispirata da un verso di Rainer Maria Rilke. Nonostante i cocktail rosso sangue serviti durante la presentazione, furono ricevuti pochissimi ordini e l’azienda venne ceduta a una nuova proprietà poco dopo.
Tecno, invece, scelse uno scenario decisamente meno inusuale per il lancio del sistema Nomos di Norman Foster chiudendo l’estremità su Via Manzoni di Montenapoleone per uno street party. Un altro brand optò per l’affitto di un intero treno della metropolitana per una festa con tanto di camerieri a bordo che servivano i drink. I pendolari fermi ai binari intanto contemplavano lo spettacolo che stava accadendo a bordo mentre i vagoni sferragliavano attraverso le stazioni senza fermarsi.
Un’esperienza decisamente più disturbante fu quella con cui nel 2001 Gaetano Pesce pensò di ricreare la morfologia dell’Italia all'interno della Triennale avvalendosi di formaggio parmigiano, prosciutto e altri cibi. Un’installazione che, complice il caldo, divenne presto insostenibile.
Prima che Zona Tortona diventasse oberata di punti vendita di aspirapolveri e condizionatori, Cappellini utilizzò il Superstudio Space per presentare, assieme a altre creazioni, i vasi Airborne Snotty di Marcel Wanders: degli starnuti stampanti in 3D con volontà di disgustare lo spettatore e che oggi, in epoca di pandemia, assumono un significato nuovo e attuale. Nel 2005, quando Established and Son stava provando a decollare, fu lo sferisterio di Via Palermo a essere designato dall’azienda per marcarne l’arrivo sul mercato milanese.
Grazie a Marc Newson, nel 2015 Jony Ive decise di lanciare il primo Apple Watch a Milano. Scelsero la Società del Giardino presso Palazzo Spinoza, reclutando lo staff dello storico Bar Basso per il catering. Nel 2018, invece, Nina Yashar mise in mostra la sua rimarchevole collezione di arredo Lina Bo Bardi presso il Nilufar, contribuendo così a mutare l’approccio alla comprensione dell’opera.
Sino ad ora, dunque, il Salone presso la Fiera e gli eventi di design in città sono stati capaci di convivere in un rapporto di mutuo beneficio. Anzi, la creatività meno convenzionale ha contribuito a legittimare lo status del Salone come evento chiave internazionale per il mondo del design. Allo stesso tempo, il costante rilievo del Salone ha condotto un pubblico sempre più numeroso su tutta Milano.
Una delle conseguenze inattese della crescente importanza della design week è, però, la sua natura mutevole. È infatti ciò, e non le conseguenze della Pandemia, a mettere in luce le criticità del suo successo futuro. Le persone vogliono ancora incontrarsi e avere l’opportunità di confrontarsi faccia a faccia, di creare e curare. Eppure, quando la conversazione inerente il design, similmente a quella del mondo dell’arte, è sopraffatta dal brusio di chi cerca di vendere sedili per jet privati, tutto ciò diventa inevitabilmente più arduo da realizzarsi.
Milano rischia dunque di diventare uno spettacolo ai soli fini commerciali dove i più grandi investitori provengono dal mondo della moda, della tecnologia e dell'automotive, e che un giorno potrebbero sancire di non necessitare più di riviste e tantomeno del Salone. Sebbene questi dispongano di budget capaci di generare interesse virale su Instagram, non sembrano oggi capaci di offrire la risonanza culturale di quella prima collezione Memphis, o di sostenere i tentativi di una nuova generazione di superare quegli exploit.