A Fondazione ICA Milano troviamo la mostra “Cheerfully Optimistic About the Future”, prima personale in Italia di Michael Anastassiades. Il progetto espositivo ha una forte componente manuale e racconta il punto di vista sul mondo del designer cipriota. Classe 1967, Anastassiades ci ha raccontato come e nato il progetto espositivo e come l’ha sviluppato nell’ultimo anno.
La prima domanda non può che essere: com’è tornare a Milano dopo quasi due anni di stop?
È bello ritrovare il contatto umano. Il contatto fisico.
Dov’è stato durante la pandemia?
Sono rimasto a Londra per (quasi) tutto il tempo. Questo periodo mi ha permesso di vedere le cose e lavorare in maniere differente. In quanto creativo non posso smettere di pensare e progettare, quindi è stato un periodo interessante. Tutte le lampade che vedi in mostra sono state realizzate fisicamente in quel periodo da me e la mia squadra.
Il tempo dilatato del primo lockdown (in Italia da marzo a maggio 2020) sia stato importante per molti di noi.
È stato un evento che non può lasciarti indifferente. Abbiamo imparato molto, siamo usciti dalla nostra comfort zone. Alcuni di noi avevano davvero bisogno di questo shock. Per me è importante guardare agli aspetti positivi di questa vicenda.
Per questo è “Cheerfully Optimistic about the Future” (allegramente ottimista sul futuro)?
La cosa curiosa è che ho scelto il titolo prima di sapere cosa avrei fatto per la mostra. Sapevo solo di voler realizzare dei nuovi lavoro. Tutto questo è avvenuto prima del Covid, perché l’invito da ICA è arrivato nel dicembre 2019.
Parliamo della prima sezione della mostra: The Glossary Room.
Qui puoi trovare una collezione personale di pietre che ho iniziato da bambino. Sono cose che ho trovato in tutte le parti del mondo – principalmente in Grecia e Cipro, dove sono cresciuti. La maggior parte sono semplici pietre, alcuni sono dei regali. Da sempre mi interessa l’idea di “natura come designer”: è capace di creare forme perfette, o delle decorazioni che sembrano fatte dall’uomo. Una, ad esempio sembra indossare una maschera. Altre sono invece scolpite da microorganismi.
Ricorda con quale pietra ha iniziato la collezione (e il momento in cui la ha presa)?
Ovviamente. Si tratta di una pietra rotonda che ho trovato durante una escursione. Ero in viaggio con un architetto, amico di mio padre. Questo si rivelò un insuccesso: stavamo cercando dei fossili ma non ne trovammo neanche uno, per cui ero molto deluso. Ma nella strada di ritorno ho trovato la pietra ed è stato per me un momento molto appagante. Questa collezione spiega bene lo sguardo con cui vedo le cose, il mio punto di vista sul mondo.
Come prima mostra personale a Milano, è interessante notare che è un’istituzione artistica a ospitarla e non una legata al design.
La cosa importante per me è lavorare con la massima libertà. Per questo ringrazio Alberto Salvadori – direttore e fondatore di Fondazione ICA Milano nonché curatore della mostra – per il rapporto di fiducia che si è creato. A me non cambia molto essere in un’istituzione più legata al mondo dell’arte piuttosto che del design. La mia è una pratica creativa che non fa distinzione tra prodotto industriale, oggetto artistico o artigianato. Questa differenza non dovrebbe esserci. Per me il lavoro deve essere meditato e significativo. Non mi interessa essere esposto in musei e istituzioni famose solo per il riconoscimento.
La seconda parte della mostra ha un rapporto molto forte con la prima.
Il punto di partenza dell’installazione è il materiale in sé. Non c’è lavorazione, è semplicemente bambù che cresce e la cui vita viene fermata in un certo momento, in modo da avere un diametro preciso. Anche qui possiamo ritrovare il concetto di “natura come designer”. Gli unici componenti prodotti industrialmente sono le lampadine e la parte tecnologica. Ma questi elementi possono essere facilmente rimossi e sostituiti, ad esempio, con delle candele. La base invece è in peltro, un metallo che fonde a basse temperature, che abbiamo potuto gettare noi stessi in studio durante il lockdown.
In un recente articolo uscito su Domus (numero 1053, gennaio 2021) scrivono di lei: “L’apparente semplicità delle sue creazioni nasconde, in realtà, una grande e intensa complessità di lavorazione e un’intensa ricerca per raggiungere la forma più pura.” Qui la complessità dove sta?
Qui riguarda come provi a domare la natura. Non si può controllare completamente un essere vivente. Quindi il mio è più un lavoro di negoziazione. Bisogna lasciare che la materia naturale sia ciò che viole essere e non forzarla ad essere qualcos’altro. Per questo serve una profonda comprensione del materiale.
Leggevo anche che quando si è laureato, si rifiutava di lavorare per altri studi e ha iniziato subito in modo indipendente. È una cosa che suggerirebbe ai giovani designer?
Ti devo correggere. Da ragazzo avevo idee molto specifiche e forti. Non direi che mi rifiutassi i lavorare, ma piuttosto era difficile per me trovare un’occupazione. Facevo molta fatica a spiegare le mie idee e queste non erano adatte per la pratica dei miei datori di lavoro. Quando provavo a lavorare per qualcuno la mia collaborazione durava solo un paio di mesi. Questo percorso mi ha forzato a capire quello che volevo fare nella vita. Ho dovuto insegnare yoga per 15 anni per supportare la mia pratica indipendente. In questo modo ho potuto sviluppare i miei progetti, creare il mio brand nel 2007 e produrre i miei progetti di illuminazione. Ora le cose sono diverse, perché lavoro anche per grandi aziende come Flos e Cassina. Ma all’inizio è stato molto difficile perseguire le mie idee. Quindi se devo dare un consiglio è di credere fermamente in quello che si fa e non pensare che la strada sia facile. I risultati arrivano solo dal duro lavoro.
- Mostra:
- Cheerfully Optimistic About the Fututure
- Artista:
- Michael Anastassiades
- Curatore:
- Alberto Salvadori
- Dove:
- Fondazione ICA Milano, Via Orobia 26, Milano
- Quando:
- Dal 7 settembre al 9 gennaio 2022
- Orari:
- da giovedì a domenica, dalle 11.00 alle 19.00
- Prezzo:
- gratis