La citazione dalle Tesi su Feurbach [1] scolpita sulla tomba di Karl Marx ci ricorda come “I filosofi hanno soltanto interpretato in mondo in modi diversi, ma il punto è cambiarlo”. In meglio, è il sottinteso ovvio ma pregnante.
Nella nostra epoca nessuna comunità ha preso sul serio questo invito quanto coloro che lavorano nel campo dell’information technology, i quali di fronte alle incertezze del presente applicano l’insegnamento dell’informatico visionario Alan Kay: “il miglior modo di predire il futuro è inventarlo”[2].
Se guardiamo in maniera superficiale ai risultati che hanno ottenuto negli ultimi 50 anni la loro ambizione appare giustificata.
A ben vedere però le invenzioni capaci di cambiare davvero il mondo con il solo venire alla luce sono rarissime: per rimanere al mondo moderno, il telegrafo, la penicillina, la bomba atomica, la pillola anticoncezionale e poche altre. In questi casi il rapporto causa-effetto è facile da stabilire e la tesi tecnodeterminista appare molto convincente.
La maggior parte delle invenzioni, però, non ha effetti così dirompenti sul mondo. Il cambio di paradigma annunciato dagli inventori delle stampanti 3D autoreplicanti oppure degli smart contracts non si sono verificati e chissà se e quando questo avverrà, stante quella che Jane Bartlett chiama la “resistenza materiale degli oggetti culturali”[3] ovvero l’insieme di convenzioni sociali ed economiche, pulsioni e propensioni che possiamo riassumere sotto il termine di “natura umana”.
Ottenere un cambiamento consapevole, intenzionale, utile e diretto è insomma immensamente complicato specialmente nel caso di innovazioni che mirino a intaccare il processo di accumulazione del capitale e l’assetto politico che ne è allo stesso tempo garante e figlio.
Certo, è molto probabile che tecnologie solo superficialmente disruptive, come le automobili a guida autonoma o gli apparati di smartness urbana, facciano presto breccia ma è assai difficile credere che esse possano davvero incidere sulla società e sulle sue strutturazioni materiali e simboliche di più lungo corso.
Ultimo ma non ultimo c’è l’enorme problema sotteso nell’affermazione del grande cibernetico inglese Stafford Beer: “lo scopo di un sistema è ciò che fa”[4]. Non ha cioè importanza se una tecnologica nelle intenzioni di chi l’ha sviluppata, avesse come obiettivo quello di emancipare, liberare, arricchire oppure al contrario, soggiogare, schiavizzare e impoverire. Quello che conta è ciò che in concreto fa nel momento in cui la si osserva e va valutata soltanto sulla base di quello.
Lasciate che vi faccia un esempio che conosco personalmente: sulla spiaggia di Niigata, in Giappone, è stato eretto un frangiflutti composto da migliaia di tetrapodi in calcestruzzo da due tonnellate ciascuno. Il loro scopo, nelle intenzioni di chi li ha concepiti, è quello di mitigare la forza delle onde ed evitare che la sabbia dell’arenile venga risucchiata dall’oceano. Peccato che oggi siamo quasi certi che facciano esattamente il contrario: oltre ad arrecare un danno estetico pressoché irreparabile alla costa, pare che accelerino l’erosione invece che rallentarla e secondo molti osservatori non sono altro che un tacito sussidio all’industria nazionale del cemento. Insomma, nel migliore dei casi quella tecnologia costituisce un’errata allocazione di fondi ed energie, nel peggiore un vero e proprio imbroglio.
Questo esempio ci richiama all’attenzione e allo spirito critico con cui dobbiamo valutare oltre che le promesse dei visionari che hanno progettato una nuova tecnologia, anche quelle che ci vengano fatte dagli sviluppatori, dai promotori e da chiunque altro abbia un interesse materiale nella sua diffusione.
Ogni giorno ci troviamo di fronte al divario tra le affermazioni tecnoutopiche circa quello che una qualche innovazione emergente può o potrebbe fare e ciò che in concreto sta facendo. Spesso i presunti vantaggi si concretizzano soltanto in parte oppure non si concretizzano affatto, mentre le conseguenze negative (quasi sempre previste) si avverano.
Quando di parla di rivoluzioni tecnologiche nulla accade automaticamente, nulla accade senza che ci sia un prezzo da pagare e alla fine il risultato potrebbe essere contrario a quello desiderato.
Se ci vincoliamo troppo a una tecnologia o più in generale a un dato paradigma tecnologico, allora saremo costretti a trovare delle cose da fare per quella tecnologia o all’interno di quel paradigma indipendentemente dalla loro efficienza. Al contrario se partiamo non dagli strumenti che abbiamo a disposizione ma dagli obiettivi che vogliamo perseguire – per esempio una maggiore indipendenza delle amministrazioni urbane a scapito del potere dello Stato centrale – ci renderemo conto che soltanto di tanto in tanto quella o quell’altra innovazione possono essere utili alla bisogna. Le domande che dovremmo sempre porci sono: questa tecnologia ci permetterà di praticare politiche diverse? Possiamo fare in modo che esse non limitino a perpetuare e rafforzare le dinamiche attuali?
Al momento non sono particolarmente ottimista a riguardo ma trovo consolazione nelle parole di Raymond Williams [5] che sosteneva come anche all’interno di sistemi egemonici resistano sacche non omologate composte da momenti sociali del passato e deboli segnali di forme sociali in procinto di nascere. Un po’ come file non del tutto cancellati dall’hard disk il nostro mondo reca tracce di modi di vivere fondati sulla solidarietà, sulla convivialità e su una vita quotidiana più tollerante nei confronti delle imperfezioni. Sono questi i semi futuri che curati con grande impegno potrebbero crescere e diventare un modo di vivere sulla Terra più saggio, più giusto e più generoso.
Questo articolo è la rielaborazione di parte dei contenti del capitolo conclusivo di Radical Techlogies: il progetto della vita quotidiana (2017).
- 1:
- Karl Marx e Friederich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani, 2011
- 2:
- Alan C. Kay, “Predicting the Future”, su Stanford Engineering, n° 1, 1989
- 3:
- Jane Bartlet, “The Force os Things”, su Political Theory n° 3, 2004
- 4:
- Stafford Beer, “What is Cybernetics”, su Kibernetes, 2002
- 5:
- Raymond Williams, “Base and Superstructure in Marxist Cultural Theory”, su New Left Review, n°82, 1973