Questa intervista è stata pubblicata su Domus 1022, marzo 2018
Come si forma nella nostra mente il concetto di comfort? È influenzato da sensazioni percettive o piuttosto da condizionamenti sociali, culturali o economici?
C’è una recente tradizione delle neuroscienze che si è appassionata a spiegare per quale motivo le cose belle generano esperienze piacevoli. Si tratta di realizzare un sogno antico: fornire spiegazioni naturalistiche alle ragioni del godimento. Tuttavia si dovrebbe forse ammettere che il paradosso della sensazione di comfort, nel contatto con alcuni particolari ambienti o oggetti, è precisamente che essa non corrisponde a un puro dato sensoriale. Al contrario, consiste precisamente in una specie di surplus ineffabile e misterioso dell’esperienza, qualcosa che c’è ma non si vede, né si può toccare.
Non è contenuta nell’esperienza di un oggetto ma nella promessa silente di cui esso è portatore. L'esatto opposto del senso vuoto e autosufficiente di “esserci nell'esperienza” del buddista che medita, l’anti-comfort per antonomasia, il senso ruvido delle sue natiche sedute sugli spigoli di una panca qualsiasi.
Il paradosso della sensazione di comfort è che essa non corrisponde a un puro dato sensoriale [...]. Non è contenuta nell’esperienza di un oggetto ma nella promessa silente di cui esso è portatore
Ci può fare un esempio?
Per usare un celebre esempio filosofico, potremmo dire che ciò che accade con il comfort assomiglia molto all’esperienza magica del consumo di un uovo Kinder. Qui si realizza uno sdoppiamento esemplare tra l’oggetto apparente del nostro desiderio (il cioccolato che in effetti mangiamo) e l’oggetto che lo trascina, lo causa e rende possibile il godimento (il giochino di plastica con cui nessun bambino ha mai giocato). L’idea è che la stupida sorpresa costituisce l’equivalente della promessa ideologica di un premio: assurgere al possesso di un bene che ci rende desiderabili – per esempio agli occhi degli altri bambini o per il fatto di aver ottenuto la sorpresa migliore. Questa promessa “a vuoto” – che è la radice ultima di ogni ideologia – è precisamente ciò che ci permette di godere dell’inutile sfoglia di cioccolato. La bontà della sfoglia è mediata da un surplus che rende quel cioccolato straordinariamente godibile e unico. Un cioccolato come nessun altro. L’esperienza del comfort è sempre sospesa in questo sdoppiamento tra godimento e desiderio, e l'oggetto del desiderio è sempre il segno dell'impossibilità di un godimento compiuto.
L’esperienza del comfort è sempre sospesa in uno sdoppiamento tra godimento e desiderio, e l'oggetto del desiderio è sempre il segno dell'impossibilità di un godimento compiuto
Cosa accade se ci proiettiamo nell'universo degli oggetti?
Gli oggetti che producono comfort sono oggetti in grado di evocare una promessa (ideologica) che poi prende le forme di manufatti intrisi di valori culturalmente dominanti. La società frammentata e accelerata, dove l’identità si disloca e si perde tra molte identità virtuali, oggi vende per esempio il mito delle isole di decelerazione (dolci strade in paesaggi lunari, sulle quali scivola un SUV, nel vuoto pneumatico) come riferimento aspirazionale per lo spirito mesto dei consumatori accelerati. Tra le mura di casa poi, il miraggio del comfort e del relax si confondono, come abnegazione alle pratiche e alle abitudini dell’individualismo tipico di questa era, che è al tempo stesso la matrice fondamentale dell’accelerazione sociale e il suo approdo esausto: godere del piacere decaduto di un piano cottura, bearsi del sublime equilibrio di smussi e contundenti di una sedia, sentirsi "semplicemente a casa” sotto l’ombra discreta di una pompeiana montabile. È difficile non concordare con Slavoj Žižek quando dice che se l’ideologia del cosiddetto mondo ‘postideologico’ opera precisamente attraverso una continua dissimulazione dei suoi meccanismi, poche cose come il design possono essere pura ideologia all’opera.
Stefano Benzoni vive e lavora a Milano. Neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, è consulente per la Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Ha pubblicato Figli Fragili (2017), L’infanzia non è un gioco (2013) e Psychofarmers (2005)
In alto: un'illustrazione di Andrea Mongia