“Nel 2010 ho lasciato tutto e sono stato due anni in Asia, soprattutto in India: ho praticato Ashtanga a Mysore (pratica dinamica, ndr) e Hatha yoga nell’ashram di Sivananda, metodo che ho nel cuore, e poi meditazione Vipassana in Birmania, una tradizione buddhista”. Dario Buratto, 37 anni, designer di talento di Stories of Italy con Matilde Antonacci racconta come la filosofia dello yoga lo abbia aiutato a diventare il designer di oggi.
Come hai cominciato la pratica yoga?
Per caso, nel 2005 durante un viaggio in India. Conobbi un monaco tibetano a Bodhgaya, città di rifugio per i tibetani, e con lui feci le prime lezioni. Mi fermai lì per caso, c’era un guasto al treno. Lui ha piantato in me un seme che nel tempo è cresciuto. Nel 2010 ho lasciato tutto e ho deciso di praticare yoga intensivamente, sono stato in India due anni e mezzo quando sarei dovuto restare un mese! Poi sono tornato, ho aperto e gestito un centro di yoga a Trieste per due anni e mezzo, lì sono stato insegnante.
Un punto di non ritorno verso il design...
Al contrario. Mi si è riaccesa l’anima creativa e ho cominciato il progetto Stories of Italy: design contemporaneo applicato alle tecniche di artigianato italiano e tradizionali. Il grosso tema della mia vita è trovare l’equilibrio tra il mio lato più meditativo e speculativo (quello dello yoga) e un lato creativo e pratico legato alla materia e all'oggetto che mi tiene legato all’Italia e al design... Per un decennio ho vissuto come se le due parti fossero in conflitto, quindi non sapevo mai se stare di qua o stare di là, se fare l’insegnante di yoga o il designer. Alla fine mi sono riconciliato.
Lo yoga è una disciplina fisica, ma è anche un codice etico che in generale prevede la tolleranza, la non violenza e altri principi. Iyengar, padre dello yoga, dice che senza “yama” e “nyama” (l’aspetto etico della filosofia) lo yoga è acrobazia.
È così. Il mondo delle asana e della parti fisiche è importante fino a un certo punto. È l’etica dello yoga che che si applica all’alimentazione e alla vita che conta. Il principio della non violenza nelle parole nel pensiero e nelle azioni cerco di applicarlo in tutto quello che faccio, dall’alimentazione – sono vegetariano – e nelle relazioni di lavoro usando un linguaggio non aggressivo, anche se si è arrabbiati: la parola è importante tanto quanto l’azione. Il principio di non violenza (ahimṣā) è in tutto, anche nel pensiero che produce un effetto pratico di azione. Lo yoga per me è più un modo di vita, faccio del mio meglio per metterlo in pratica, è il mio pilastro. Ho trovato un’etica che mi si concilia molto, è adogmatica e può essere praticata da chiunque. L’universalità di questo sistema filosofico mi piace molto
Sei religioso?
Ho un forte senso del divino. Quello dello yoga non è monoteistico e duale, non c’è Dio vs il resto. Tutto quello che c'è è divino. Leggendo “Jnana Yoga” di Swami Vivekananda ho ritrovato il mio pensiero, mi si è aperto il mondo dello Jnana yoga (lo yoga della conoscenza, ndr). Ho trovato lì la mia cosmogonia.
Se non ci fosse stato il tuo percorso di yoga saresti designer?
Forse lo sarei ma in maniera più conflittuale, ho sempre vissuto con i sensi di colpa di sprecare un sacco di tempo per fare delle cose inutili: facendo dei bicchieri non si salvano le vite. Lo yoga mi ha fatto riconciliare con la mia creatività, perché qualsiasi gesto non è importante di per sé, è l’intenzione del gesto che ha valore. Puoi fare lo spazzino, il designer, la suora, il presidente, ma se l’intenzione è buona e non violenta allora va bene.
Questo come si traduce nel lavoro?
Lavoro solo con artigiani locali, a differenza della produzione industriale di massa che inquina e si serve di manodopera sottopagata nelle zone più disagiate. In questo modo l’oggetto non ha un impatto negativo sul mondo. Questa modalità ha riconciliato il mio aspetto riflessivo con quello più creativo. Lo yoga mi ha aiutato nelle relazioni con gli artigiani e i mastri vetrai: sono persone dure, stanno sulla difensiva. Però ho scelto un linguaggio non violento e questo mi ha aperto le porte di un ambiente a volte chiuso come quello di Murano.
Se tutti i designer praticassero la filosofia yoga come migliorerebbe il mondo?
Se tutti facessero questo ragionamento avremmo delle catene produttive più intelligenti. Potrebbe esserci migliore attenzione all’impatto etico e ambientale degli oggetti. Nella fase progettuale si sta più attenti alla produzione: ci si chiede chi produrrà e in che zona del mondo. Tenere conto di tutta la catena che porta a un oggetto finale e adattarla al fine che sia più etica possibile è il modo “giusto, etico” di fare design.
Come pratichi?
A volte la sequenza Rishikesh (Sivandanda), a volte estratti della prima serie di Ashtanga. Tante volte faccio pratiche di respirazione e di consapevolezza del respiro, di radicamento al momento presente.
Miglior tappetino da praticante e da designer?
Io uso il Manduka, si compra online, l’ho preso 5-6 anni fa ed è come se non l’avessi mai usato.
Sottile o spesso?
Quello spesso di 5 mm, perché se faccio le inversioni o la candela è meglio così.
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