Il futuro è qui

Ideata da Alec Newson per illustrare le trasformazioni della “terza rivoluzione industriale”, quella del Design Museum è una mostra sui vincitori, non sui perdenti, delle tecnologie di oggi.

I visitatori della più recente mostra del Design Museum sono accolti da un’insegna al neon rosa sgargiante.

Un momento dopo l’insegna lampeggia e cambia in qualcosa di meno spavaldo: “Il futuro era qui”. Questa combinazione di sfrontatezza e incertezza è la sintesi di “The Future is Here: A New Industrial Revolution”. Ideata da Alec Newson, la mostra intende illustrare le trasformazioni che si stanno verificando nella “terza rivoluzione industriale”.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

La mostra è allestita nel principale spazio espositivo del museo. La prima sezione illustra la storia della produzione fino a oggi, dalla prima rivoluzione industriale del Settecento a oggi. Al centro ci sono principalmente la Gran Bretagna e le innovazioni che ne hanno fatto una potenza industriale, benché altri paesi (occidentali) c’entrino per qualche cosa. C’è anche un’apprezzabile attenzione nei confronti di chi protestava contro gli aspetti negativi del progresso tecnologico, dai luddisti dei primi dell’Ottocento ai minatori degli anni Ottanta del Novecento. Minima è la considerazione dedicata all’opposizione contemporanea: è una mostra sui vincitori, non sui perdenti, delle tecnologie di oggi.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

Il resto della mostra è suddiviso in cinque sezioni diverse, ciascuna dedicata a una differente piattaforma tecnologica: Produzione digitale, Personalizzazione di massa, Produzione in serie, Società e Decostruzione. Ciascuna comprende prodotti fabbricati con le tecnologie presentate, con spiegazioni ed esempi di materiali, macchine e tecniche usate.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

Produzione digitale comprende alcune delle tecnologie digitali più classiche, dalla fabbricazione a controllo numerico alla stampa tridimensionale. Ciò non la rende meno innovativa: comprende gli occhiali PQ eyewear (2013) di Ron Arad, fatti di un unico pezzo di poliammide stampato. Hanno giunti flessibili invece delle cerniere e, in certi modelli, struttura adattabile al viso di chi li indossa. Questa allusione alla personalizzazione è al centro di Personalizzazione di massa, che presenta aziende che sperimentano le possibilità di mercato del digitale. La scelta è vasta e va dal produttore d’arredamento londinese Unto This Last –il nome deriva da un saggio di Ruskin – che unisce competenza artigianale e fabbricazione a controllo numerico, alle calzature personalizzabili Mi di Adidas e ai nuovi progetti di Assa Assuach, pioniere del digitale. I visitatori possono anche sperimentare personalmente il carattere partecipativo di queste tecnologie, grazie a un computer su cui si possono disegnare le caratteristiche della propria Makiedoll, bambola personalizzata da stampare a tre dimensioni.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

Produzione in serie rafforza il messaggio secondo il quale queste tecnologie rappresentano qualcosa di più che un semplice movimento di hacker militanti o del fai da te, e possono invece rappresentare la fabbrica del futuro. Accanto a due robot industriali di KUKA al lavoro c’è una sedia dell’Endless Process di Dirk Van der Kooij, nel quale gli oggetti vengono fabbricati da un unico flusso continuo di plastica riciclata. Il processo dei designer olandesi testimonia il filone ecologico della mostra, evidente soprattutto nella sezione Decostruzione, che riguarda la potenziale sostenibilità delle nuove tecnologie, come nelle calzature InCycle della Puma, certificate al cento per cento cradle-to-cradle, biodegradabili e riciclabili.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

Infine la sezione Società analizza come le nuove tecnologie abbiano sfumato i confini tra il ruolo del progettista, quello del produttore e quello dell’utente. Qui i temi chiave sono il carattere pubblico e la democrazia, come si vede nella WikiHouse, impostazione open-source dell’architettura, e nell’invito a partecipare al progetto di un nuovo divano per la società britannica MADE.com, che metterà in produzione il progetto vincitore. C’è anche occasione di vedere che cosa accade se chi non fa il progettista viene coinvolto nella produzione digitale, grazie a una ‘fabbrica’ da tavolo funzionante dove i visitatori possono osservare il personale del museo alle prese con taglierine laser, stampanti tridimensionali e altre apparecchiature.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

La mostra invita alla discussione sugli effetti sconosciuti di questa rivoluzione digitale. Invita a pensare a quale sarà l’aspetto dello studio di design del futuro, a come la fabbricazione digitale sarà insegnata e a quali conseguenze avranno queste tecnologie sulla vendita al pubblico. Porsi queste domande è importante, e la mostra suggerisce che non siamo del tutto pronti a questi cambiamenti; un’infografica sulla parete di fondo della sala rivela che, secondo una recente indagine, due terzi di noi preferiscono il design dei professionisti e quasi il novanta per cento non è interessato a possedere una stampante tridimensionale.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum

A dispetto di queste incertezze la retorica della mostra è prevalentemente positiva, cosa che non sorprende data la collaborazione con il Technology Strategy Board, organizzazione britannica che ha lo scopo di favorire l’innovazione in funzione della crescita economica. Da questo punto di vista il messaggio è chiaro: paesi come la Gran Bretagna possono ancora essere potenze manifatturiere, anche nell’èra postindustriale di oggi. E tuttavia, anche se è bello vedere una mostra che illustra queste tecnologie al grande pubblico, molte domande restano senza risposta. Chi è alla testa di questa “terza rivoluzione industriale”: i produttori di base o il capitalismo dei gruppi industriali? È il segno di un vero terremoto sociale o solo una nuova mossa del vecchio sistema? Quale effetto avrà sui paesi che attualmente producono i beni? Mentre esco il neon lampeggia, indeciso se questo sia oppure possa essere il futuro del modo in cui si progetta e si fabbrica il nostro ambiente materiale.

Vista della mostra "The future is here: a new industrial revolution", London Design Museum