A inizio millennio ci trovavamo sulla via della smaterializzazione della cultura e della comunicazione, più o meno a metà strada tra l'utopia macchinista e numerica del Centre Pompidou e la nostra contemporaneità smart che tenta di traslocare in universi digitali. Cyber era un prefisso ancora ammantato di attualità, computer e supporti video soppiantavano la carta e le ultime tecnologie analogiche sopravvissute, traghettandoci dal Novecento al tanto anticipato Duemila. Toyo Ito realizza un'architettura che estende questo fenomeno alla quotidianità delle attività culturali di una città media, e al tempo stesso assume il valore di progetto simbolo di un'epoca, di portata globale tanto per la cultura in senso lato (“è un abito mediatico, un cervello esteriorizzato” dice il progettista) quanto per la sfera architettonica stessa, coinvolgendo figure allora emergenti o di recente affermazione come Kazuyo Sejima, Karim Rashid, Ross Lovegrove. Domus racconta questa pietra miliare nel marzo del 2001, sul numero 835, con un saggio dello stesso Toyo Ito e con le parole di Deyan Sudjic.
Tarzan nella giungla dei media
di Toyo Ito
È ormai sceso il sipario sull’epoca in cui Museo, Biblioteca e Teatro – in quanto specifiche tipologie architettoniche – potevano celebrare orgogliosamente il proprio ruolo di punti di riferimento culturali.
I dipinti appesi alle pareti e i libri stampati su carta non occupano più una posizione di totale privilegio. I media elettronici li hanno trasformati in oggetti che si misurano per il loro valore relativo e non più come assoluti. In futuro, quadri, libri e film saranno considerati al pari dei media elettronici, quali i compact disc o i videotape, senza discriminazioni gerarchiche. La gente userà gli uni e gli altri in modo complementare: di più, la possibilità di fruire dei dipinti e dei libri attraverso i media elettronici finirà per distruggere la forma tradizionale del museo e della biblioteca.
Queste strutture saranno fuse in un unico e solo tipo architettonico, e non esisteranno più confini fra il museo, la galleria d’arte, la biblioteca o il teatro. Verranno tutti ricostruiti in una forma nuova – la mediateca – la quale sarà come un emporio aperto fino a tardi con tutti i tipi di media esposti gli uni insieme agli altri. Questa nuova forma di edificio di uso pubblico non sarà una presenza simbolica o virtuale, isolata al margine di una piazza deserta, staccata dalla vita della città: dovrà essere invece situata in prossimità di una stazione ferroviaria, per esempio, e restare aperta fino a mezzanotte, sette giorni su sette, pronta a servire il pubblico in ogni momento della vita quotidiana.
Negli anni Sessanta Marshall McLuhan disse che “l’abito e il tetto sono un prolungamento della nostra pelle”. Fin dall’antichità l’architettura è servita come mezzo per consentire all’uomo di adattarsi all’ambiente naturale: oggi è un prolungamento della pelle non solo rispetto al mondo della natura, ma anche a quello dell’informazione. Oggi l’architettura deve agire come ‘abito’ per i media. Quando è avvolto in quell’abito meccanico che si chiama automobile, l’uomo fa l’esperienza dell’espansione del proprio corpo fisico. E parimenti si può dire che chi indossa un abito ‘mediatico’ faccia l’esperienza dell’espansione del cervello. L’architettura come abito mediatico può essere definita un cervello ‘esteriorizzato’.
Nel vortice creato dal sovraccarico di informazioni che minaccia di travolgerci tutti, l’individuo ha la libertà di navigare fra di esse per controllare e orientarsi nel mondo esterno. Ma anziché rivolgersi al mondo esterno protetto dall’armatura di un abito rigido come un guscio, oggi può indossare un abito mediatico leggero e duttile, che è l’incarnazione del vortice informatico. L’uomo avvolto in un abito di questo genere è il Tarzan della giungla mediatica.
Il vortice dell'informazione
di Deyan Sudjic
Sendai è una tranquilla e ordinata città di provincia, a tre ore di treno a nord di Tokyo, abbastanza lontana quindi da dare l’impressione di essere sfuggiti agli infiniti tentacoli della megalopoli consumistica del Giappone. È una città con un impianto a scacchiera, ben lontana dal caos urbanistico di Tokyo. I cieli di novembre a Sendai sono freschi e azzurri. Le strade sono fiancheggiate da alberi. Nel centro ci sono chiese cristiane. È una città rassicurante, anche un pochino sonnolenta.
La Mediateca costruita da Toyo Ito nel centro di questa città riflette sia i limiti sia le ambizioni del contesto in cui si trova. È nella stessa area di un salone Pachinko, gioco preferito dai giapponesi: un lato dà su uno dei viali principali della città, mentre gli altri tre lati guardano su una serie di garage, parcheggi e capannoni. Il nuovo edificio sostituisce una modesta biblioteca civica, il tipo di posto in cui i bambini usciti dalla scuola vanno a consultare le enciclopedie, le locali associazioni di ikebana si riuniscono una volta la settimana e gli acquerellisti dilettanti organizzano le mostre dei loro lavori. Quando però la città si accinse alla ricostruzione della biblioteca, si orientò verso qualcosa di decisamente più ardito, dal punto di vista culturale come da quello architettonico. Fu steso un programma per un concorso in cui si profilava un nuovo tipo di istituzione culturale, una ridefinizione del concetto di biblioteca che tenesse conto delle nuove tecnologie dell’informazione. La struttura doveva contenere una raccolta di libri già esistente, ma anche ospitare una galleria d’arte, un cinema, un auditorium per le conferenze e un cybercaffè.
Questa costruzione è dunque importante tanto per Ito quanto per il Giappone. È una specie di summa del lavoro finora svolto dall’architetto, a una scala più grande e più ambiziosa di ogni sua altra opera precedente, che ne consolida la reputazione in patria e all’estero. Nonostante le affermazioni di Ito sulla precarietà dell’architettura nell’era dell’informazione, la Mediateca di Sendai è per molti aspetti un edificio molto tradizionale: un monumento, un’espressione di orgoglio civico.
È difficile non accostarla alla sua omonima – la Mediateca di Norman Foster a Nîmes, che ha una destinazione simile – oppure al Centre Pompidou di Parigi, di Piano e Rogers. Il Pompidou è molto più grande, ma per la sua libertà spaziale e per la sua struttura innovatrice è chiaramente un precedente della Mediateca di Ito.
Come Piano e Rogers, Ito ha cercato di costruire un edificio senza una struttura spaziale fissa, che potesse adattarsi e cambiare grazie appunto all’indeterminatezza degli spazi: ha cercato di smaterializzare l’architettura. La sua Mediateca è una costruzione liscia e lucente che non ha bisogno di una facciata vera e propria. Ogni facciata è diversa dalle altre ed è difficile cogliere il senso della frontalità dell’edificio, benché esso non sia molto più piccolo di quello di Nîmes, che peraltro gode di un sito più privilegiato. Dal lato est si possono cogliere lunghe prospettive su quello che è sostanzialmente un semplice volume rettangolare di vetro. Sul lato ovest c’è una schermatura esterna di metallo: per controllare l’aumento della temperatura interna, certo, ma anche per una sorta di omaggio all’architettura. La parete frontale è una doppia ‘pelle’ di vetro, con tatuati sopra quelli che sembrano i segni di un codice a barre. Sono segni sostanzialmente decorativi, anche se probabilmente influiscono sul comportamento termico della facciata, e certamente contribuiscono ad accrescerne il senso di ambiguità.
Ma forse anche più importante dell’immaterialità dell’edificio è la sua struttura, che è unica, senza nessun elemento convenzionale. I pavimenti sono lastre di acciaio incassate nel cemento e la struttura verticale è simile a una foresta di alberi, che si elevano per tutta l’altezza dell’edificio. Non è fatta però di tronchi massicci, bensì di una straordinaria sequenza di vuoti di dimensioni diverse, sostenuti da un ‘albero’ portante fatto di ‘cesti’ in tubi di acciaio saldati. Essi sono disposti a spirale, in un modo che sembra negare ogni logica strutturale. Poiché l’edificio deve rispettare le severe norme costruttive giapponesi elaborate per far fronte ad almeno un terremoto ogni quattrocento anni, questo non è stato davvero un lavoro facile. L’ingegner Mutsuro Sasaki racconta di avere avuto da Ito uno schizzo quando cominciò a lavorare al progetto. “Sembrava fuori della realtà, con tutti quei tubi irregolari che sostenevano sottili piattaforme fluttuanti come alghe marine. Comunque questa immagine così poetica mi colpì profondamente e stimolò la mia fantasia”.
Sasaki se l’è cavata egregiamente nella realizzazione dell’idea di Ito di una struttura quasi invisibile. Le solette sottili e i vuoti con i ‘cesti’ di tubi intrecciati sembrano lontanissimi dall’idea che ci si fa normalmente di una struttura: la Mediateca risulta così di una eccezionale leggerezza ed è quasi “senza sostanza”. Alcuni vuoti contengono le scale, altri gli ascensori, altri ancora non sono che buchi alti quanto l’intero edificio, che consentono alla luce naturale di penetrare fin nel cuore dello stesso, entrando e uscendo da un piano all’altro. I pavimenti variano di altezza, configurazione e carattere, in parte anche grazie agli interni creati dai progettisti che Ito ha chiamato a collaborare.
Kazuo Sejima, che iniziò la carriera nello studio di Ito, ha realizzato l’arredamento nella zona della biblioteca riservata ai bambini. Karim Rashid, ha creato invece una serie di oggetti d’arredamento molto plastici, quasi architettonici, che portano colore nella struttura sostanzialmente monocromatica, specie al livello dell’ingresso che è trattato come una piazza pubblica. E il pavimento dell’ultimo piano, su suggerimento di Ross Lovegrove, è stato rivestito di una moquette verde per creare quello che egli chiama il Giardino della Conoscenza: è un tema ripreso nella sua scaffalatura “ad albero”, che contiene le cassette e i cd in questa zona, mentre il soffitto è formato da un motivo irregolare di tubi fluorescenti.
L’edificio è straordinario. In ogni sua parte appare come un tentativo molto determinato di spingere l’architettura verso nuove strade, eppure non scade mai nell’esibizionismo. È molto giapponese, eppure appartiene all’architettura internazionale. È eseguito splendidamente, eppure si basa sulla qualità delle idee più che sul dettaglio prezioso. È spazialmente ricco e complesso, una presenza molto forte: eppure in qualche modo fa anche pensare al grande distacco che c’è fra le sue ambizioni architettoniche e la realtà delle normalissime attività che si svolgeranno al suo interno.