Una cuccia per cani, l’aeroporto di Hong Kong, paesaggi di pannelli solari e esperimenti di trasporti sotterranei negli Emirati Arabi Uniti. tutti questi progetti rientrano con uguale importanza e rilievo mediatico nella galassia di linguaggio associata a Norman Foster. Progettista, quindi, più che solo architetto o designer, che dall’etichetta High Tech si tiene da tempo prudentemente distante: “Non credo che i miei progetti siano hi-tech. Credo che ci interessino le prestazioni degli edifici, questo sì. Ma probabilmente gli edifici di più alto livello tecnologico cui si possa pensare sono le cattedrali”, aveva detto a Domus nel 1998 (Intervista a Norman Foster. Domus 806).
E dire che, sulla Domus degli anni ‘70, si costruisce un vero panorama dell’hi-tech proprio attraverso i suoi progetti, che sembrano esistere per confermare quei sogni radical che il mondo dell’architettura sta sognando all’epoca: la Willis Faber and Dumas di Ipswich (New in England. Domus 552, novembre 1975) il SAPA building e il MAG building (Per lavorare. Domus 536, luglio 1974), il Sainsbury Centre for Visual Arts (Per l’arte all’Università di East Anglia. Domus 592, marzo 1979), ad oggi tutti riconosciuti come capolavori. C’è anche posto per quel progetto meno noto che è però il primo a comparire, e che combina tutti gli elementi che fanno la poetica di un movimento e di un decennio: il complesso portuale sul Tamigi al Millwall Dock (Carico e scarico sul Tamigi. Domus 493, dicembre 1970) è una macchina ibrida, misteriosa di giorno dietro i vetri specchiati e viva di notte con tutti i suoi meccanismi in vista e in azione, i suoi interni così simili a modelli radicali à la No-stop City.
Ma gli anni ‘70 sono anche gli anni in cui il contesto della critica vira violentemente verso il postmoderno: anche l’onda radicale vi confluisce in un certo modo, e con lei persino la lettura dello stesso High Tech, che arriva agli anni ‘80 già trasfigurato e relativizzato: “Se l’architettura con una forte immagine e una sua pro pria identità spaventa gli inglesi, a cui puzza troppo di ‘commerciale’, l’High Tech può permettersi di essere pura immagine mascherata da un’idea di praticità. (…) Gli architetti High-Tech – che dominano la scena per qualità ed influenza – postulano una società ordinata e lienare: “Arancia Meccanica” o Buckminster Fuller, è questione di punto di vista”. (L’umile e l’utile. Domus 637, marzo 1983. La villa che compare in Arancia meccanica è un progetto firmato Foster, NdR)
Gli anni successivi diventano allora anni fondamentali di posizionamento per Norman Foster, emblematici come tempio delle evoluzioni dell’High Tech. a differenza di Renzo Piano che allarga le geografie delle sue commesse ma si concentra sul mantenere una dimensione “artigianale” della sua pratica, Foster con la sua Foster & Associates evolve alla scala di azienda di progettazione, della portata delle grandi firms che avevano “fatto” il moderno negli Stati Uniti e si avviavano a diventare attori di scala mondiale. La grande firm di Foster si posiziona su una economia globale sempre più di mercato, ed è quello che raccontano i progetti che compaiono su Domus: l’affermazione dei grandi soggetti privati nella trasformazione urbana, come nel progetto per l’area di King’s Cross a Londra, consultazione di cui Foster risulta vincitore (“…il sorgere di un’architettura eclettica e pragmatica, pur con notevoli eccezioni, che risponde in maniera soddisfacente sia all’attuale clima conservazionista sia alla vitalità finanziaria dell’impresa”, dice Richard Burdett su Domus 700, dicembre 1988); ma anche una nuova stagione dell’associarsi di questi soggetti a grandi simboli costruiti, come la torre della Hong Kong and Shanghai Bank (Domus 674, luglio 1986) .
È una instant icon, apre il capitolo intitolato “High Tech” in molti manuali; distributivamente incarna la teologia dell’ufficio aperto con grande vuoto centrale, all’avanguardia della sua epoca, e con le strutture reticolari ciclopiche esibite così come le gru di manutenzione sul tetto scorta il linguaggio dell’estetica della macchina nella sua età matura. Con la Hong Kong Bank, con l’organizzazione degli spazi a ‘grappoli’ – come se si trattasse di tanti villaggi disposti uno sopra l’altro – abbiamo cominciato a mettere in discussione la struttura del tipico edificio a sviluppo verticale, che si può vedere ovunque, in qualsiasi città del mondo” dirà poi Foster anni dopo (Domus 840, settembre 2001) .
Non mi riesce di fare alcuna differenza tra l’architettura e la scala delle piccole cose con cui si viene a contatto quotidianamente, che siano maniglie, lampade o mobili.
Norman Foster, 1998
Nel 1987 la conferma arriva dal mondo degli oggetti: il tavolo Nomos è raccontato (Domus 679, genaio 1987) secondo quella stessa sintassi del sistema di dettagli, oggetto “tecnologico” benché estetico che saprà inserirsi in contesti differenti, fino a oggi, instaurando un dialogo quasi sempre intelligente.
Tecnologia, e sua immagine, come garante di una mediazione di successo in situazioni complesse, tra soluzione contemporanea e contesto storico, tra progresso e memoria, tra grande episodio e città consolidata, in qualsiasi luogo questa mediazione avvenga. È la cifra che procura a Foster alcune delle sue più iconiche occasioni di progetto, che Domus pubblica dagli anni ‘90: il Carré d’Arts a Nîmes (Domus 751, luglio 1991), il Reichstag di Berlino – concorso per un restauro che si aggiudica esplorando fin da subito alla via del dialogo, mediato dalla luce, tra soluzione tecnica ex novo e tutela dell'esistente (Domus 748, aprile 1993 e 819, ottobre 1999) – fino poi al piano per il Vieux Port di Marsiglia del 2013 (Domus 973, ottobre 2013 ) dove la Grande Ombrière, grande copertura sulla calata a mare, specchiata all’intradosso, rappresenta il massimo grado di essenzializzazione ed esplicita efficacia di questo suo approccio.
“‘Non so più esattamente che tipo di architetto sono’. Una perdita di legami che non sorprende: gli edifici di Foster, nato a Manchester, sembrano quasi avere il dono dell’ubiquità nelle città chiave d’Europa e Asia, rivendicando in questo modo la notorietà veramente globale del loro artefice”. Scriveva così infatti Patrick Barton nel 2000 citando Foster (Multimedia Center, Amburgo. Domus 827, giugno 2000).
Bisogna però dire che sono decenni in cui per Domus non è tanto l’autore a parlare in prima persona, quanto le relazioni di progetto del suo studio, o le recensioni dei suoi critici, entrambe frequentissime, così come la presenza nelle rassegne di mostre o nuovi oggetti. È in realtà una modalità che continuerà anche dopo le sue prime interviste, in parallelo a un suo sguardo personale sulla sua attività e sulla condizione globale. A rappresentarla, i Ripensamenti e i Monitor con cui Deyan Sudjic, nei suoi anni alla guida di Domus, segue la nuova stagione del Foster che costruisce il paesaggio delle capitali del Terzo Millennio, Londra in particolare. L’intervento sulla corte del British Museum, prima di tutto, “un tetto che ha la forma di un cuscino di vetro e ricorda il lavoro svolto un tempo da Foster con Buckminster Fuller” (British Museum: la corte di Foster. Domus 833, gennaio 2001). Poi il Millennium Bridge, aperto e subito di chiuso per fugare quel rischio di oscillazione armonica di cui è raccontata la terrificante manifestazione e poi la corale risoluzione (Quando i ponti tremano. Domus 847, aprile 2002) .
La City Hall, poi, e le ragioni della sua forma: “paragonata a un casco da motociclista, o anche (parola del sindaco) a un testicolo di vetro, (…) per spiegare questa forma, Foster parla di risparmio energetico; ma in sostanza l’aspetto del Municipio è il risultato di una battaglia condotta per far apparire il governare la città – attività in fondo piuttosto opaca e tediosa – più interessante di quanto realmente sia”. (La casa del sindaco. Domus 852, ottobre 2002).
Della torre Swiss RE, il Gherkin (cetriolo), era poi stato finalmente Foster stesso a parlare, nel 2001: “…consolida e amplia le innovazioni gìà applicate nelle torri della Hong Kong Bank e della Commerzbank: si è creato cioè un edificio ecologicamente ‘responsabile’ (…) vi sono applicate e sviluppate idee che abbiamo proposto per la prima volta all’inizio degli anni ‘70, in un progetto teorico elaborato insieme a Buckminster Fuller. Si chiamava Climatroffice, e la sistemazione a giardino creava un microclima all’interno di una struttura a energia controllata, mentre pareti e copertura si fondevano in una ‘pelle’ senza soluzione di continuità”. (Il grattacielo ‘responsabile’. Domus 840, settembre 2001) .
La fantascienza della mia gioventù è la realtà di oggi. Perciò la fantascienza di oggi sarà la realtà per la prossima generazione. Le città pionieristiche del futuro sono destinate a stupire tutti noi, allo stesso modo.
Norman Foster, 2019
Il ruolo di Foster come figura di riferimento, creatore di visioni dalla posizione che decenni di progetti gli hanno garantito, è la cifra dei suoi anni recenti, una cifra di ricerca incarnata dalla sua Norman Foster Foundation di Madrid (Domus 1010, ottobre 2017) e dal frequente ricorrere alla messa in prospettiva di tante visioni architettoniche e urbane avvicendatesi nella storia, rivolgendosi al loro valore per il futuro, e senza risparmiare progetti anche suoi: “Prendiamo a esempio un edificio che abbiamo realizzato qualche tempo fa: il Gherkin (‘Cetriolo’), che sorge nella City di Londra. Se penso al suo futuro, immagino che potrebbe non essere più̀ utilizzato come edifico per uffici, perché l’idea stessa di ufficio sta diventando obsoleta. Forse diventerà̀ una fattoria verticale che produrrà̀ veri cetrioli, con un contadino che li trasporterà̀ con un drone! (Qual era il futuro. Domus 1040, novembre 2019)