Il 25 giugno 2021 è morto nella sua casa a Palermo Umberto Riva, il "maestro della luce". Il designer e architetto ci ha lasciati all'età di 93 anni. Naturalizzato milanese, fu allievo di Carlo Scarpa e lui stesso successivamente professore di Architettura a Palermo e Venezia, al Politecnico di Milano e all’Istituto Europeo di Design. Ottenne la Medaglia d’Oro alla Carriera nel 2018 per i suoi distintivi progetti nell’ambito dell’architettura di interni e per le sue lampade, considerate capolavori del design industriale italiano. Ripercorriamo la sua duplice natura, quella dell’architetto e del designer, con due articoli pubblicati su Domus. Il primo è un racconto di lampade attraverso le parole di Riva stesso, pubblicato su Domus 985, novembre 2014, mentre il secondo è un viaggio attraverso i suoi interni, pubblicato su Domus 975, gennaio 2013.
Addio a Umberto Riva, progettista artigiano
Ci ha lasciato all’età di 93 anni l’architetto e designer milanese celebre per i suoi progetti “di luce”. Lo ricordiamo con due articoli pubblicati su Domus che rivelano tutto il suo genio creativo.
Foto Leo Torri
Foto Leo Torri
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Foto Leo Torri
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Foto Leo Torri
Umberto Riva, pencil drawing of Veronese table lamp
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- La redazione di Domus
- 28 giugno 2021
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Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 985, novembre 2014 con il titolo “Dettagli di architettura”: una rilettura in prima persona sulla produzione di lampade del progettista milanese. Testo Umberto Riva, foto Leo Torri – Archivio Domus
“Riflettendo sul progetto delle mie lampade devo premettere che ho sempre pensato che già la sola lampadina fosse la massima espressione possibile, per forma e funzione, in campo illuminotecnico: è l’elemento che ancora oggi mi dà meno fastidio vedere in uno spazio, quello meno invadente. Le occasioni per disegnare delle lampade le ho avute molti anni fa, quando i rapporti con le aziende produttrici erano molto semplici e spontanei, meno formali di oggi. Tramite Tobia Scarpa conobbi Toni Zuccheri, che lavorava per Barovier&Toso e mi propose, appunto, di disegnare lampade”.
“Ho sempre trovato il vetro già di per sé un materiale molto bello, ragion per cui ho cercato di far realizzare soffiature che ricordassero forme che nascevano per inerzia, per la predisposizione materiale del vetro a essere soffiato come per esempio il fiasco, una delle forme più naturali che esistano. Il vetro chiuso tra due mezze forme rappresenta per me un tradimento nei confronti della natura di questo materiale. Il vetro é bello se viene portato al limite, a spessori ridottissimi, e acquista così grande luminosità. Se si andava al mattino presto a vedere le prime soffiature che i maestri facevano per controllare la qualità dell’amalgama, una situazione in cui non vi era alcuna astrazione formale, si potevano vedere delle forme molto speciali. È questo che ho sempre cercato di ottenere disegnando le mie lampade e, in particolare, la Veronese”.
“Cerco sempre di mettere in evidenza la contraddizione tra i materiali che compongono una mia lampada: il metallo è duro come il vetro ma anche fragile, il matrimonio tra i due non è facile. È per questo che nella Veronese ho appoggiato il vetro su tre pezzetti di legno di betulla che fanno da elementi di mediazione tra vetro e metallo. Ho fatto in modo che i ‘discorsi’ dei materiali fossero messi molto bene in evidenza, ma anche differenziati: ognuno doveva mantenere In propria forma di competenza — senza che si integrassero l’uno nell’altro — aiutati da un appoggio, un elemento di sostegno tra gli altri materiali”.
“In genere, cerco di attuare una scomposizione per elementi, ognuno valorizzato per le sue potenzialità. In quelli che hanno una struttura metallica arrotondo gli spigoli, perché il disegno non sia mai ambiguo e non lasci delle zone inesplorate. Prima della Veronese, nel 1972 avevo disegnato un’altra lampada a stampo fermo, la Medusa, formata da due parti soffiate unite con un cordone centrale che andava a evidenziare la giunzione dei due elementi. Era una delle prime lampade che avevo disegnato per VeArt. Avevo scoperto che se nell’amalgama vetrosa si inseriva del bicarbonato, questo provocava la formazione di bolle e una sorta di gelatina opale. Non mi sono mai posto il problema che queste lampade potessero sembrare ricche”.
Cerco sempre di mettere in evidenza la contraddizione tra i materiali che compongono la mia lampada
“Il vetro di Murano ha già di per sé una certa ricchezza formale, oltre a una leggerezza e una trasparenza uniche. Penso comunque che la loro qualità risieda nel processo progettuale, che procede sempre per approssimazioni, seguendo un iter in cui ogni elemento si carica di un preciso significato. Non parto con degli “a priori”, sapendo con precisione quello che voglio ottenere. La forma dei vetri della Veronese conteneva solo un rimando al vetro classico veneziano; la forma finale si è creata lentamente, passo dopo passo, per tentativi. Queste lampade raccontano anche come 25 anni fa gli artigiani fossero un ingrediente fondamentale del progetto, come grazie alla loro competenza nella lavorazione di ogni singolo materiale si potessero realizzare oggetti di questo tipo, frutto di una sommatoria di competenze. Sono lampade dove nulla è superfluo, lampade che oggi pare impossibile realizzare, perché le aziende chiedono un’estrema semplificazione e unificazione degli elementi compositivi, per evitare problemi di fornitura e magazzino. Oggetti che possiedano l’elevata ricchezza formale di queste lampade oggi sarebbero molto costosi”.
Queste lampade raccontano anche come 25 anni fa gli artigiani fossero un ingrediente fondamentale del progetto, come grazie alla loro competenza nella lavorazione di ogni singolo materiale si potessero realizzare oggetti di questo tipo...
“Mi piace lasciare su ogni singolo pezzo i segni delle modalità di lavorazione adottate, come il piccolo foro nei metalli, quello da cui parte o in cui cambia la linea del taglio. Mi piace pensare che queste lampade abbiano un aspetto poco invadente, come se la loro funzione di illuminare passasse quasi in secondo piano rispetto alla presenza formale. A tal proposito, di recente un’amica mi ha detto che le mie lampade sono belle anche spente, forse perché hanno una ricchezza formale che consente loro di ‘reggere’ anche se non sono accese. Credo anche che le mie lampade abbiano proprio bisogno di avere un colore, così che, se la loro trasparenza non è illuminata, si può comunque leggere la loro ricchezza formale.
“Avrei voluto lavorare ancora più a fondo in questa direzione, aggiungere dei colori e un ‘cuore’ interno blu o giallo ma, in qualche modo, la serialità della produzione della fornace ha fatto sì che non potessi sperimentare ulteriormente. Si lavorava con soffiatori possenti, che dovevano avere molto fiato per soffiare una tale massa di materiale: erano i più ricercati e quindi anche i più costosi. La bellissima tonalità di vino annacquato che a me piace molto era data dall’aggiunta di polvere d’oro in una determinata quantità. Il verde è un verde bottiglia pallido, appositamente schiarito per essere più facilmente riproducibile in serie. Il colore ambra è il solo che rimane in produzione, credo proprio per queste ragioni di serialità e produzione su larga scala.”
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Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 975, gennaio 2013 con il titolo “Disegnare Spazi”: vengono qui presentate due case milanesi disegnate da Umberto Riva. Testo Massimo Curzi, foto Andrea Martiradonna – Archivio Domus
Casa Righi è la trasformazione di uno spazio originariamente utilizzato come laboratorio: un ambiente formato da due livelli, la cui altezza è di 4,70 m in ciascun piano. Il piano superiore è adibito a zona giorno, mentre in quello inferiore, data l’altezza, è stata ricavata una zona soppalcata adibita al riposo. Questo piano inferiore, oltre a ospitare le stanze da letto, è riservato al lavoro. Le finestre presentano serramenti in alluminio anodizzato di grandi dimensioni, occultati da alte tende che ammorbidiscono la luce. La casa è spazio puro, suddiviso da schermature alte e basse, che possono dare origine a stanze, essere pareti-armadio o semplici tramezzature, consentendo allo sguardo di compiere improvvise accelerazioni, di superare i tramezzi e attraversare gli ambienti. Questo avviene sia in pianta sia in sezione: la possibilità di affacciarsi da un piano all’altro rompe la tranquilla intimità domestica. La casa —apparentemente monocromatica e caratterizzata da un grigio leggero — esibisce una struttura in cemento armato di travi e pilastri che, in alcuni punti, è lasciata a vista e, in altri, è verniciata. I pochi colori utilizzati sono scelti in una palette vicina a quella di Le Corbusier.
Casa Mieli Ballerini si trova al terzo piano di un palazzo milanese degli anni Trenta, un edificio borghese che si affaccia lungo viale Gian Galeazzo, in cui l’incrocio dei materiali nelle parti comuni dell’ingresso e del vano scale racconta delle laboriose e colte maestranze che popolavano la Milano di quegli anni. Una tradizione che miscelava vetrate colorate posate su leggere strutture in “ferro finestra” e nobili decorazioni in finti marmi realizzati con povere pitture e parapetti modellati in elaborate gestualità di ferro battuto. Ben esposta verso est, a ricevere la potente luce del mattino, la casa presenta su questo stesso lato la cucina e la sala da pranzo. Un elemento in legno e vetro, posto immediatamente davanti all’ingresso, sintetizza con un solo segno diversi elementi: divisione, trasparenza, illuminazione e un piano d’appoggio ‘svuotatasche’.
Il grande soggiorno, oltre a un muro perimetrale con due ampie finestre, presenta altre due pareti: una con una libreria; l’altra, opposta, suddivisa in due diverse funzioni: la parte bassa accoglie un divano con un tavolino, mentre in quella alta, scandita da una struttura ad architrave, un'alternanza di vetri trasparenti e colorati a piani sfalsati permette di far penetrare luce e sguardo da una stanza all’altra — tra soggiorno e studio. Dal soggiorno, attraverso una porta, si entra in un secondo studio, appendice della zona giorno. Un piccolissimo disimpegno distribuisce la zona notte. Tagli sulle superfici e porte più o meno tradizionali accompagnano il fluire negli spazi domestici. I colori, in buona parte applicati con tinte all'acqua agli arredi fissi, sono ridotti ai minimi termini.
Dettaglio della lampada Veronese in vetro soffiato color rubino, la cui particolare tonalità è data dall'aggiunta di polvere d'oro all'amalgama. In evidenza il complesso sistema di tensionatori in ottone. In questo prototipo il ferro non è brunito ma lasciato grezzo.
Dettaglio della lampada Veronese nel punto di appoggio del cristallo sui tre supporti in legno di betulla che fanno da elemento di mediazione tra vetro e metallo.
Il 'pesciolino' in vetro stampato funge da ulteriore diffusore di luce della lampada Sospesa.
Le componenti del sistema strutturale in ottone naturale e brunito della Sospesa.
Dettaglio della lampada da terra Franceschina, prodotta da FontanaArte nel 1989.
La parte superiore della lampada Veronese, con vetro soffiato color ambra.