Gradini che di volta in volta abbracciano divani o diventano sedute, oggetti capaci di trasfigurarsi in muri o superfici e creare stanze, luce naturale che si riversa generosa oppure identifica punti nello spazio, facendo i luoghi conviviali o più raccolti. Al centro di tutta la progettazione di Vico Magistretti, origine e unità di tutte le diverse traiettorie in cui si è espressa, c’è senza compromessi l’atto dell'abitare. Per questo la sua figura si è sempre sottratta a qualsiasi squadrismo stilistico; per questo oltre alla sua retorica dell’antiretorica — oltre al suo understatement costante, e devastante per qualsiasi tentativo di indurlo ad autocelebrarsi — non c'è altro, a fare per lui da statement, che i suoi spazi; per questo i suoi interni sono il mondo che collega la sua architettura, il suo design e il suo pensiero, e Domus non ha mancato di esplorarli e raccontarli fin dagli anni Cinquanta.
Quando disegno, non applico un particolare ideologia, ma sono sicuramente formato dal Movimento Moderno. Di qui il mio considerare tutto architettura, ivi compreso il design
Vico Magistretti, Domus 748, aprile 1993
Sono interni inizialmente e poi principalmente milanesi, dove Magistretti interviene a ristrutturare o ad allestire, finendo per incrociare di volta in volta i temi caldi della storia dell'architettura contemporanea.
Si comincia con l'appartamento Bassetti del 1953 (Appartamento all'ultimo piano, Domus 335, ottobre 1957) che, poco dopo l'intervento antiquario di Tomaso Buzzi sulla villa Necchi Campiglio di Piero Portaluppi, pare inserirsi nella tendenza postbellica di quegli interni borghesi dove pezzi storici si combinano con arredi e di elementi moderni, e lo stesso succede quando poi Magistretti va a ripensare la zona di rappresentanza dell'appartamento Gavazzi (1953-59; In una vecchia casa, a Milano, Domus 354, maggio 1959).
Già qui però abbiamo avvisaglie di una diversità: in casa Bassetti a tenere banco è l’enfasi della doppia altezza del soggiorno, a collegare due diversi livelli di terrazzo; in casa Gavazzi compaiono ribassamenti voltati interrotti a metà stanza, muri-libreria, aperture curvilinee che danno su scale scomposte in una composta cascata di cubi.
È la plasmazione di un dispositivo spaziale il vero core di questi progetti, così come quell’eredità — che già è stata rilevata di recente in occasione di una mostra — del Raumplan di Adolf Loos, dove a fare distribuzione è la combinazione interna di diverse altezze e livelli, la possibilità di traguardare da un ambiente dentro l’altro.
Rimarrà una costante, nei decenni, come ritroveremo poi al massimo della sua espressione nell'appartamento Cerruti, a Milano, del 1968 (Un solo ambiente, diversi livelli, Domus 479, ottobre 1969), un pied-à-terre ormai totalmente contemporaneo dove livelli diversi descrivono spazi diversi, e si fanno qui seduta, qui scala, qui scultura che dialoga con altri pezzi-scultura come la lampada Chimera.
E in ogni caso non si piega, Magistretti, alla ortodossia del Raumplan: nelle sue case, a differenza di quelle di Loos, la complessità interna si esprime nelle spesso tormentate volumetrie esterne. E nemmeno il lusso, come già avevamo intuito, è il suo punto. Le sue sono strutture, dispositivi puramente spaziali capaci di reggere anche quando li si svuota di tutti i complementi di pregio di cui spesso sono riempiti. Il concept che Magistretti presenta nel 1965 a Firenze, per la mostra La Casa Abitata a Palazzo Strozzi, vuole infatti dichiarare guerra alla cesura borghese tinello-cucinino-sala, e nel farlo propone uno spazio ibrido, modulabile, in pieno anticipo sulle riflessioni recenti riguardo la flessibilità degli ambienti domestici, e tutto questo per le case che la cooperativa MBM sta realizzando al quartiere Gallaratese di Milano (La Casa Abitata, Domus 526, maggio 1965).
Una attenzione alla modulazione dei singoli ambienti come dispositivi, come forme di architettura e non vani da riempire di oggetti, che Magistretti porterà avanti a lungo: nel 1987, ad esempio coordinerà Ugo La Pietra, Martine Bedin, Franco Raggi e Daniela Puppa in una ricerca sullo spazio del bagno come rappresentazione della vita domestica (Dal metaprogetto al progetto, Domus 687, ottobre 1987).
È un principio strettamente architettonico quello cui Magistretti resta fedele negli anni, tanto da dichiarare in conversazione con Domus nel 1993 che:
“…Una volta finita la casa, vorrei potesse restare vuota. (…) In un certo senso, quando faccio un’architettura degli interni, faccio già un arredo. Ad esempio, un parapetto può diventare una panca. Perché? Perché non mi interessa avere un parapetto, mentre mi serve un piano, largo e piatto. Così come, in una casa che ho appena terminato, ho progettato una galleria che dall’ingresso costeggiando il salone porta alla terrazza: non si è più in un condominio, ne risulta una ‘passeggiata palermitana’, si ha la sensazione dello spazio.”
(Gli arredi degli architetti, Domus 748, aprile 1993)
È una formulazione larvale di quella distinzione spesso rivendicata nel contemporaneo tra interior design e interior architecture: tutti gli interni di Vico Magistretti sono interventi di struttura, che nella loro articolazione e nei loro dettagli creano poi le percezioni e le estetiche.
Così nell’intervento per l’area cassette del Credito Varesino a Milano (Nuove sistemazioni di ambienti in una banca, Domus 342, maggio 1958) è la struttura metallica dipinta di rosso che si fa sistema di illuminazione a dare la cifra di unicità di un ambiente altrimenti condannato all’anonimato per costituzione. E avanti così negli spazi commerciali e terziari realizzati nei decenni successivi. Lo Styling Center per Cerruti 1881 a Parigi (Magistretti a Parigi, Domus 462, maggio 1968) è una concatenazione di diversi scenari creati da scatole trasparenti, divisori isolati, sequenze di elementi più o meno fitte che frammentano uno spazio continuo, la scala scultorea nella vista del ventaglio delle sue componenti dall'alto.
Nel negozio Artemide a Milano (Schermi a saliscendi, Domus 508, marzo 1972), poi, è di nuovo l'oggetto che funziona come dispositivo e solo allora crea architettura, spazio: i divisori in tessuto possono scendere sull’area espositiva e suddividerla, orchestrarla a piacimento, o restare altrimenti sollevati in alto, a disegnare un cielo geometrico e ombreggiato.
Il negozio Cassina a Milano del 1979 può subito far gridare al postmoderno, con le sue putrelle verniciate di bianco a fare da trabeazione a certe colonnine tonde di ferro ma, come viene fatto notare nello stesso articolo che lo presenta (Negozio come moschea, Domus 602, gennaio 1980), la sostanza del progetto è invitare ad una esperienza di quel particolare spazio preesistente, con la sua bizzarra cupola ribassata e la camminata di ingresso che si può fare sotto di essa, rimarcata da una grande striscia/lampadario di tessuto.
Il resto, è vendita. Poco importano gli stili o il rigore di composizione.
Esperienza dello spazio, sta tutto in quello. Il piano largo e piatto dove si direbbe parapetto o panca. La passeggiata palermitana là dove in un normale condominio verrebbe collocato un corridoio.
In un certo senso, quando faccio un’architettura degli interni, faccio già un arredo. Ad esempio, un parapetto può diventare una panca. Perché? Perché non mi interessa avere un parapetto, mentre mi serve un piano, largo e piatto. Così come, in una casa che ho appena terminato, ho progettato una galleria che dall’ingresso costeggiando il salone porta alla terrazza: non si è più in un condominio, ne risulta una “passeggiata palermitana”, si ha la sensazione dello spazio.
Vico Magistretti, Domus 748, aprile 1993