“Inquisitore progettuale”: la lettera di Mendini a Enzo Mari

Quando chiamiamo Mari “coscienza del design”, ci stiamo riferendo a una lettera di Alessandro Mendini che apriva un Domus del 1980, dove il maestro moderno era la cover star.  

Una frase che spesso abbiamo citato, e che a lungo ha avuto il valore di una biografia sostanziale di Enzo Mari, viene proprio dalle pagine di Domus, e più che biografia è un profilo critico definitivo: “Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designers, questo importa”.
La scrive Alessandro Mendini in una lettera a Mari con cui apre il numero 607 del luglio 1980: il direttore della nuova Domus, in un nuovo incrocio tra design e arti, nella grafica di Sottsass destinata a diventare icona così come i ritratti delle cover (e le cover di Alchimia e Occhiomagico degli anni successivi) veste l’abito del postmoderno che avanza, e si rivolge al grande Moderno, “inquisitore progettuale”, “moralista”, per rimarcare le loro differenze, ma anche un bisogno che il design degli anni a venire avrebbe sentito sempre di più: quello di una coscienza.

Domus 607, giugno 1980

Caro Enzo Mari,
Ho letto il libro che è stato appena scritto sul tuo lavoro di designer. Da tempo quando giro il mondo per via di questo mio mestiere di cronista del design, di segugio dell’architettura e dell’arte, tutti mi chiedono con curiosità notizie sul design italiano tanto famoso, sulle sue fortune passate e sulle sue speranze future. Allora io parlo dei tempi rosa del Bel Design e del suo tramonto, dell’epoca del design radicale e della sua dura fine. Poi parlo del fatto che di giovani designers dalla matita d’oro non ne crescono più, che questo fenomeno ha un senso sociale ben preciso, eccetera.

Poi parlo e sparlo dei miti Aulenti, Castiglioni, Magistretti, Munari, Sambonet, Sottsass, Zanuso, e di Maldonado l’immigrato. Poi ricordo i miti industriali, Alessi, Artemide, Brion, Cassina, Flos, Gavina, Kartell, Olivetti. Poi introduco la mia ipotesi di una possibile futura eclettica strada del design italiano, basata sulla diffusione della “normalità piccolo borghese, più vasta e fantasiosa, meno esclusiva e schematica di quella degli ultimi trent’anni.

A te interessa il progetto del progetto, anzi il progetto del progetto del progetto. Ovvero tu cerchi, proponi e mediti solo sul ‘progetto dell’uomo’.

A un certo punto in questi miei viaggi succede che la gente mi domandi; “E questo Enzo Mari che assieme agli infiniti oggetti per Danese produce messaggi irritanti come l’ “Atlante secondo Lenin”, questo Enzo Mari chi è, che cosa rappresenta?”. Allora io non ho dubbi e rispondo: “Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designers, questo importa”.

Domus 607, giugno 1980

Ora io non sono un moralista e un demagogo come te, io non so e non voglio distinguere i buoni dai cattivi come fai tu. E questo credo non lo sanno fare nemmeno coloro che ho elencato prima, perché tutti noi prendiamo la parte per il tutto, succhiamo volutamente ossi di gomma. Tu invece no, tu mordi solo l’osso ve ro, pur sapendolo ormai spolpato. A te non interessa il progetto disegnato, se non come freccia da lanciare contro la logica illogica del meccanismo produttivo, come teorema per dimostrare le incongruenze del sistema.

A te interessa il progetto del progetto, anzi il progetto del progetto del progetto. Ovvero tu cerchi, proponi e mediti solo sul “progetto dell’uomo”. E questo vuole dire occuparsi di morale, magari attraverso gli stessi oggetti per Danese.

Mentre noi curvi sui nostri tavoli tiriamo le nostre righe cariche di speranza, tu a intervalli regolari ci fai sobbalzare con un tragico nuovo messaggio “finale”, pazzo, santo, severo, candido, alienato e concreto insieme: come la decomposizione della falce e del martello in quarantaquattro componenti informali, il manifesto graficamente impeccabile sulla “Merda”, la proposta per la ripresa del lavoro artigianale nella porcellana, l’idea perché ognuno possa realizzare dei mobili con tavole grezze e chiodi, l’ipotesi apocalittica di rifondazione globale del progetto, il fallimento polemico della tua mostra sul Compasso d’Oro, e come infine questo nuovo libro dove l’autore Renato Podio ci butta sulla faccia la tua logorante vocazione di costruttore che si autodistrugge.

Tu non sembri il solito designer, dico allora alla gente che mi domanda di te, tu sembri un “inquisitore progettuale” che lancia ecumenici e laconici appelli a noi architetti figlioli prodighi: “Vuotate tutto, cambiate tutto, reinventate tutto!”. Sebbene io non sia sensibile alla retorica dei richiami all’ordine e alla serietà di chi non si contraddice, sappi che i tuoi messaggi periodici arrivano nel fondo della mia coscienza.

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