Nella Milano degli anni ’50 tutto sta crescendo, si sta espandendo: la città stessa con nuova popolazione che continua a riversarsi nel ribollire dell’industria, ma anche la ricerca sulla costruzione e sulla progettazione, spinta da un mercato edilizio in esplosione. Nuovi quartieri, nell’Italia di quegli anni richiedono nuovi epicentri, ancora rappresentati da edifici di culto, ed è così che a Baranzate, hinterland nord oggi alle spalle del sito Expo, viene progettata una nuova chiesa, dove due nomi poi di riferimento nel professionismo colto milanese, Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti, sviluppano assieme all’ingegnere Aldo Favini un concept di architettura per la spiritualità che si può quasi definire futuristico, per come precorre una moltitudine di temi: uno spazio liturgico aperto anni prima delle riforme del Concilio Vaticano II; una struttura libera da pilastri intermedi caratterizzata dalle iconiche travi precompresse – brevettate da Favini – in conci di calcestruzzo dalla tipica sezione a X; la traslucidità dell’involucro che lega visualmente e percettivamente l’interno con l’esterno, facendo entrare natura e città e restituendo a queste un landmark luminoso per il giorno e per la notte, anticipando ricerche come quelle di Tadao Ando nella chiesa della luce, o di Steven Holl nella cappella per la Seattle University.
Diventa presto un edificio di culto anche in senso pagano, cioè un culto per la storia internazionale dell’architettura moderna, valorizzato e restaurato con un cantiere lungo quasi un decennio e completato nel 2014. Domus lo presentava all’indomani della sua inaugurazione, sul numero 351, del febbraio 1959.
Una chiesa di vetro, in Lombardia
Alla periferia di Milano, in un ampio spazio al centro di un nuovo quartiere in costruzione (collegato a quello esistente di Baranzate) la chiesa sorge isolata (anche a costruzioni ultimate sarà circondata dal vuoto di spazi verdi e di piazze). E intorno ad essa corre un muro, una specie di massiccio bastione, che ancora la isola, e che accentra per contrasto la chiara esattezza del suo volume di vetro. Il muro porta, sulla faccia interna, le stazioni della Via Crucis (bassorilievi di Gino Cosentino); tra il muro e la chiesa il terreno sale, variamente: il pavimento della chiesa è all’altezza della sommità del muro.
La chiesa è pensata come un prototipo di chiesa parrocchiale: oltre alla parte esterna – il volume quadrangolare di vetro, alto dieci metri (con base di 14,34 x 28,60) – ha un piano inferiore, la cripta (alta m. 2,30) in cui son sistemati la “cappella iemalis”, il battistero, i locali di servizio e di deposito degli arredi sacri, la sacrestia.
Due sono gli ingressi: l’ingresso normale che, al termine di una rampa discendente, porta al piano della cripta e affianca il battistero; l’ingresso delle cerimonie che, al termine di una scalinata ascendente, dà accesso alla chiesa vetrata, ed è costituito da un pannello scorrevole anch’esso di vetro apribile soltanto dall’interno. Dal piano inferiore si sale alla chiesa attraverso una scala interna che parte dalla sacrestia (e porta da -40 a +2,20, poiché il pavimento della chiesa vetrata è a questa altezza sul piano di campagna).
La struttura portante della chiesa è costituita da quattro pilastri troncoconici di cemento, lievemente martellinati, che, con le travi trasversali, sono le uniche parti gettate in opera. Il tetto è infatti costituito da elementi prefabbricati a forma di X, nei quali sono stati fatti passare i cavi di acciaio ad alta resistenza per la precompressione: su questi elementi sono appoggiati dei tegoloni rettangolari nervati, pure prefabbricati in cemento. Le pareti perimetrali sono in doppio vetro in telaio metallico, con materiale coibente intermedio e sono appoggiate al pavimento e fissate alla struttura cementizia portante in quattro soli punti in corrispondenza delle travi trasversali principali.
In alto e in basso, al confine col tetto e col pavimento, queste pareti sono, per un sottile tratto, trasparenti, a rendere evidente la loro funzione di pura chiusura non portante.