La Parigi delle grandi opere, quarant’anni fa

Quattro decenni prima della stagione olimpica, l’era Mitterrand portava una nuova visione della capitale francese coinvolgendo grandi nomi dell’architettura come Koolhaas, Piano e Nouvel in progetti capaci di scrivere una nuova identità urbana: li riscopriamo dall’archivio Domus.

Il 1981 in Francia, con l’elezione di François Mitterrand alla presidenza della repubblica, segna l’instaurazione del primo governo socialista eletto nel mondo destinato a compiersi pienamente in regime democratico. Il segno che la nuova guida vorrà lasciare sulla Capitale si concentra su una galassia di grandi opere pubbliche dal forte valore urbano, presto note come Grands Projets, che senza partire da nessuna concezione di tabula rasa, andranno a punteggiare il tessuto urbano con i suoi equilibri storici, ridefinendone dialogicamente gli epicentri. Da subito la modalità delle consultations punterà a coinvolgere i nomi all’epoca più in vista del panorama architettonico per la loro associazione ad un’idea di innovazione quando non direttamente di futuribilità. Un progetto di enorme ambizione, che Domus esplorava per la prima volta nel gennaio del 1984, con un ampio approfondimento critico pubblicato sul numero 636.

Domus 646, gennaio 1984

ParisxParis

Ci si può chiedere se non sia Keynes a ispirare il governo socialista francese in materia di programmi per le strutture pubbliche (soprattutto a Parigi) e domandare quali potrebbero esserne le conseguenze in termini di ripresa dell’economia nazionale. Sui risultati immediati non c’è alcun dubbio: nell’ambiente dell’architettura la curiosità e l’interesse sono vivaci e Parigi si è insediata, al seguito di Berlino e dei suoi grandi concorsi, tra i punti caldi dell’attività architettonica. Annunciato nel marzo dell’82 dal Presidente della Repubblica in persona, il programma ha obiettivi ambiziosi e si vorrebbe esemplare nella scelta delle procedure per la designazione dei progettisti. Sotto la presidenza di Francois Mitterrand verranno portati a termine il Museo del XIX secolo alla Gare d’Orsay e il Museo della Scienza e della Tecnica alla Villette; costruiti un nuovo Ministero delle Finanze al Ponte di Bercy e un Istituto del Mondo Arabo alla Halle aux Vins; avviata la realizzazione di un parco urbano e di un quartiere della Musica alla Villette; messi in cantiere un Centro Internazionale della Comunicazione, due Ministeri alla Défense, un’Opera alla Bastiglia e una Sala di musica popolare a Bagnolet; verrà inoltre reso operativo il progetto del “Grand Louvre”. È molto! Anche troppo, affermano alcuni, gli stessi che non molto tempo fa deploravano il deserto francese.

Domus 646, gennaio 1984

L’Esposizione Universale Expo ‘89 avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello di questo programma. Il suo abbandono lascia molti rimpianti. Il grande rischio che l’esposizione rappresentava tanto per la maggioranza quanto per l’opposizione fa temere che le ragioni di questa rinuncia siano in buona parte politiche (le peggiori). La Francia e Parigi perdono in tal modo una bella occasione per cercare di far dimenticare alcuni recenti massacri urbanistici (il più recente dei quali, le Halles, non si è ancora concluso).

Procedure

Nel recente passato incessanti rimesse in causa avevano minato alcuni progetti come le Halles, giustamente, o la Défense, per esempio. Per i “grands projets”, come li chiamano, le autorità competenti – che si tratti del Ministero dell’Urbanistica e dell’Alloggio o di quello della Cultura – si sono circondate di precauzioni e hanno tentato di mettere a punto delle procedure indiscutibili: definizione chiara degli obiettivi, programmazione dettagliata, concorsi nazionali, internazionali o a inviti, selezione all’esito del concorso di un numero ristretto di progetti da presentare al Presidente della Repubblica per la decisione definitiva. Si può contestare quest’ultima fase che sa di “architettura del principe”: dopo tutto Pompidou, inchinandosi davanti alla scelta della giuria del Beaubourg, era stato politicamente più fine. Se la costruzione fosse fallita, avrebbe potuto cavarsela onorevolmente, mentre oggi gliene si attribuisce il successo.

Domus 646, gennaio 1984

Richard Rogers esprimeva la sua ammirazione e il suo stupore davanti alla notevole serietà della preparazione del concorso per la Défense e le condizioni del lavoro dei giurati. E tuttavia la programmazione, di cui dopo il Beaubourg Francois Lombard è il campione, e che è diventata un passaggio obbligato, lascia ancora aperto qualche problema. Un giorno bisognerà pure analizzare qualche programma e cercare di capire quali e quante possibilità di invenzione sono lasciate agli architetti. In effetti, si ha la sensazione che il programma – che è fatto da architetti, non dimentichiamolo – suggerisca per così dire, in potenza, la sua propria forma. L’hanno certo capito certe giurie, che premiano progetti le cui proposte vanno deliberatamente al di là del programma, o anche contro. A scapito del programmatore! Ma nessuno è perfetto. Certo, l’altro tallone d’Achille dei concorsi è la giuria. Meno per la sua composizione, di cui ci si assicura che comprenda solo membri saggi, canuti e competenti, che per il suo adeguamento agli obiettivi del progetto, cioè a quelli del committente. I concorsi parigini hanno permesso, almeno, con le loro situazioni di armonia o conflitto, di esaminare qualche caso di personaggio tipico.

Domus 646, gennaio 1984

Insidie

Raggruppare i servizi di rue de Rivoli e i loro satelliti sparsi per la città per creare un grande ministero moderno e al tempo stesso restituire al Louvre la sua unità di museo, era da molto tempo un obiettivo prioritario. Il committente sapeva certo quel che voleva – anche se il programma (socialista?) era stranamente silenzioso sul concetto di lavoro nei tempi futuri. Una giuria su misura “produsse” quattro progetti, fra i quali il Presidente della Repubblica scelse senza difficoltà quello di Chemetov-Huidobro, con approvazione quasi generale. Solo qualche animo triste protestò una supposta non conformità del progetto al programma – mancanza di superficie, superamento della strada di separazione tra il terreno e la Senna. Ma 150.000 mq a Parigi fanno certo gola a qualcuno. A parte il raddensamento degli edi fici sulla parte ovest del terreno e il ridisegno, cancellato, della facciata principale a “pianoforte a coda”, civetteria superflua, il ministero sarà costruito (quasi) conformemente al suo schizzo. Monumentale, un po’ severo, “territoriale” (e, per dirla tutta, un po’ gregottiano) – il committente ha buone ragioni per essere soddisfatto. Il Parco della Villette ha fatto sorgere discordie ben più appassionate. Il programma per “un parco urbano del XXI secolo” era generoso e diversificato, al tempo stesso aperto e preciso, con qualche punta di humour (“non ci sarà fast-food nonostante la vicinanza del boulevard Mc Donald”). Si respiravano l’entusiasmo e lo spirito di François Barré. Per la giuria — in questo caso (d’eccezione!) sovrana, giacché non sarebbe stato necessario presentare i favoriti al Presidente — Barré aveva raccolto i più eminenti specialisti mondiali di architettura ed arte del paesaggio, in un notevole slancio ecumenico. Fatalitas! Il prestigioso areopago non riuscì ad accordarsi su un unico progetto; decise quindi un secondo turno e, per meglio difendere le proprie posizioni (o sfibrare l’avversario) nominò nove primi premi ex-aequo, di cinque dei quali la commissione tecnica si sarebbe poi domandata per quale aberrazione si trovassero là (non li nomineremo, per carità!). Al se condo turno, i giurati, mal riconciliati, scelsero il minimo comun denominatore di intesa, a detrimento del progetto di Rem Koolhaas.

Domus 646, gennaio 1984

Ed è un peccato. Koolhaas e POMA avevano prodotto uno dei loro progetti/programmi più elaborati, un parco di cui Barré in persona ci ha confidato essere senza antecedenti o riferimenti identificabili: “una pura invenzione”. Moderno dunque. Uno schema rigoroso che agiva su una griglia quasi informatica, spoglia di qualsivoglia concessione bucolica – il vegetale stesso allineato al limite del parodistico. Senza dubbio i giurati avranno sentito odor di zolfo, o quello dei gas dei razzi, il livido chiarore dei neon, la fifa della bomba a frammentazione, e fatto marcia indietro. La Villette di Koolhaas era un regno per i figli del punk e dei microprocessori. Non per quelli dei nostalgici del Fronte Popolare. A meno che non siano gli stessi. Bernard Tschumi vincitore. Per parodia, si potrebbe dire che la cosa meno interessante del suo progetto è il grado di innovazione che presenta. Tschumi che fino a non molto tempo fa presentava delle coreografie urbane dove Central Park e la 42° strada facevano da cornice a degli scenari di sesso +violenza, ha messo dell’acqua santa nella sua coca per immaginare delle Folies che Restif avrebbe ignorato. Un estratto del rapporto della commissione tecnica della giuria: “Si tratta quindi di una composizione molto bella e notevole. Presenta il vantaggio di un grande rigore e l’inconveniente corrispondente di una grande rigidità di funzionamento, che non permetterà facilmente una appropriazione collettiva – del resto facile – di queste Folies. Il progetto rispetta il luogo e ne valorizza gli elementi principali con grande sicurezza e delicatezza”. In uno dei suoi manifesti, Tschumi diceva: “per fare l’esperienza dell’architettura si potrebbe anche essere indotti a commettere un omicidio”. È un’idea.

Domus 646, gennaio 1984

Per l’Opera della Bastiglia, nel momento in cui scriviamo queste righe, la decisione del Presidente della Repubblica è ancora sospesa. Con un programma tecnico e complesso, con un luogo impossibile, ben pochi concorrenti hanno saputo cavarsela. Al Presidente sono stati presentati tre progetti: uno post-moderno, uguale a tanti altri; quello del canadese Carlos A. Ott, che la giuria aveva attribuito a Richard Meier – alcuni funzionari del Ministero della Cultura avevano passato la notte a rivedere la sua opera completa, prima che venisse sciolto l’anonimato, per poter fare qualche intelligente osservazione –; infine quello del gruppo di Munteanu Georgesco Perreau, l’unico che avesse osato mescolare l’Opera e la piazza in uno spazio pubblico musicale. Il solo, anche, che avesse osato superare il programma degli scenografi proponendo di aprire la scena sulla piazza, a detrimento dei programmatori che pretendono, ovviamente, che questo “non funzionerà mai”, perché sono i soli a detenere l’unica e legittima verità. Il Presidente, debitamente indottrinato, opterà per lo pseudo Meier o si prenderà il rischio di offenderli? (N.d.R.: apprendiamo al momento della stampa che Mitterrand ha poi scelto il progetto di Carlos Ott).

Domus 646, gennaio 1984

Per il momento c’è solo il progetto del Grand Louvre — sistemazione degli spazi liberati dai servizi di Finanza e ristrutturazione delle collezioni in un insieme più moderno — che non faccia parlare di sé. Niente concorsi? Niente consultazioni su invito? No, questa volta il Presidente aveva scelto il suo architetto, l’eminente I.M. Pei. Perché proprio lui? C’è una fioritura di architetti della stessa natura: perché non Roche? o Barnes? o Pelli? o Johnson? o Skidmore & Co.? o Andrault-Parat? o... Il sindaco di Parigi, per non essere da meno, si interessa al lavoro di Olivier Clément Cacoub. I concorsi servono a qualcosa, lo vedete.

Domus 646, gennaio 1984