Ettore Sottsass e i gioielli delle nomadi del sole

Nel 1968 l’architetto e designer racconta su Domus la storia di un incontro in cui trova il senso per una sua collezione di ornamenti, al di là di ogni appartenenza estetica e sociale.

La fine degli anni ’60 è il tempo dei conflitti sociali e intellettuali, in Italia e nel mondo, dell’immersione contrastata dall’evasione, più raramente dell’esaltazione dello spaesamento. Il Sottsass del 1968 fa un incontro, con una ragazza che gli dà il senso di una vita indipendente dai conformismi sociali e intellettuali di un’epoca; un incontro dal quale non solo troverà un nuova lettura per una serie di gioielli e per la categoria di ornamento a cui appartengono, ma anche un tuffo nelle sue domande rispetto al femminile, dalla figura di Fernanda Pivano – la moglie, la Nanda che pervade il testo – alle figure nomadi che vivono “far out”, distanti dalle categorizzazioni e dagli spazi fisici consueti: le figure che avranno l’ultima parola. Le foto e il testo di Sottsass compariranno poi nel luglio di quell’anno su Domus, nel numero 464.

Domus 464, luglio 1968

Sono mille volte meglio gli ornamenti dei nomadi del sole

Un po’ di questi gioielli o ornamenti sono del 1963 (quando ho fatto la mostra con la presentazione della Nanda) e un po’ sono recenti.

Anche quelli vecchi non erano mai stati pubblicati, forse perché era troppo complicato fotografarli e nessuno sapeva come fare, o forse perché aspettavo sempre di poter fare una grande serie di ornamenti un giorno o l’altro, che poi invece quel giorno non arrivò mai: chissà se arriverà.

Invece, l’altro giorno, arrivò Caroline (con la Clara, la sua amica), ragazza neozelandese, camminando su scarpette con il tacco da cowboy come se il pavimento fosse stato la tolda di una nave impazzita e con tatuaggi veri per sempre indelebili, sulla fronte, intorno alla bocca, sulle mani e intorno alle labbra rosa del seno sinistro, con i capelli come le zingare e gli occhi dipinti di nero come nelle storie orientali o nelle storie di streghe infernali, chi lo sa, e mi sembrò che era proprio giusta per portare i miei ornamenti fuori posto: una ragazza “far out” che aveva tagliato i ponti sul serio con il perbenismo generale, con la divisione in classi e il prêt à porter, con il discorsetto, il party e l’impegno, una ragazza che era entrata in orbita e addio non ci vedremo mai più.

Domus 464, luglio 1968

Così ho preso le fotografie che saranno anche venute male ma che, ad ogni modo volevano spiegare come questo affare degli ornamenti che ho fatto vorrebbe andare molto più lontano di quello che sembra; vorrebbe volare con leggerezza sopra alla silenziosa, torva, rabbiosa competizione proletaria, sopra alla piccola, petulante, acida competi zione borghese, sopra alla grande, magra, strascicata competizione dei ricconi e anche sopra la presuntuosa, vigliacca, velenosa competizione degli intellettuali, per posarsi su quei cuscini dove la femminilità è inspiegabile e non spiegata, dove le donne hanno un modo di fare e di essere che non si riesce proprio a capire perché e come: là dove non si capisce, a dire la verità, che cosa c’è dentro alla carne lucente delle ragazzine di tutti i posti del mondo, quando cominciano, ognuna per conto suo, portando in giro capelli pesanti, braccine sottili e occhi umidi, la storia del mondo dal primissimo principio, dall’albero, dal serpente e dalla mela che poi è fatta di pezzetti di stoffa, bottoncini, vetrini, fiori, risolini, nastrini, puntini e righe disegnate, unghiette rosse e dentini. 

Domus 464, luglio 1968

Anche non si riesce a capire com’è la storia delle ragazze servette analfabete del Tibet, le più brave per fare l’amore tantrico, e non si riescono a capire le fate celesti con ciabatte di raso che appaiono tra i licheni dei boschi dolomitici, e anche non si riescono a capire le azzurre ragazze seminude, attaccate sul finestrino della cabina dei camionisti, e ancora meno si capiscono le streghe con scialli e gonne lunghe, e neanche le spettrali geishe pendagli d’argento, e neanche si spiegano le donne malate che abitavano gli harem, nutrendosi di zuppe bollenti da caserma; e le ragazze di Supersex, Sexibell (la mamma) e Sexiboy (il bambino) con le loro doppie giarrettiere?

Difficili da capire, le donne, se si salta sopra agli schemi glaciali delle competizioni e ad ogni modo quest’affare degli ornamenti per essere al posto giusto, dovrebbe sistemarsi da qualche parte, proprio lì in mezzo, lì dove le donne sono vere, matte, inspiegabili, asociali, perdute e sole, amanti dentro amori che si mutano in pazzia o dentro amori finiti male, chi lo sa: gli ornamenti devono finire da qualche parte Iì: un po’ come un segno dell’amore, amore, amore sul serio, quello cosmico, un po’ come offerta per un appassionato viaggio della vita, un po’ anche come segno della pietà per i corpi che generano amore e poi lo perdono, sono lucenti e poi diventano opachi, trovano braccia per essere abbracciati e poi restano soli e per sempre abbandonati. 

Domus 464, luglio 1968

Forse è per questo che la Caroline mi pareva la ragazza più pulita, una ragazza che “addio, non ci vedremo mai più”, avrà la sua storia sul ciglio della via lattea delle donne; non sarà di nessuna società e non saprà mai niente, sarà la natura stessa della casta delle donne – come dice la Nanda – non avrà classe sociale, non saprà niente, si dondolerà tra capelli scomposti, ombretto nero di Lancôme, tatuaggi e parole sussurrate, cercando un po’ di soldi, cercando una biro per scrivere diario e poesie sul suo quaderno, cercando le chiavi che non troverà mai e dimenticando nel taxi che la porta dall’amica la bisaccia di velluto con dentro il pacchetto-lstambul, che poi ritroverà – intatto – agli Oggetti Perduti...

Dunque, ho fatto le foto e così si vedono gli ornamenti che ho fatto. Ma naturalmente le foto con la Caroline non risolvono il problema: forse riescono a mala pena a spiegare l’ambizione.

Domus 464, luglio 1968

Adesso mi chiedo, con la paura di uno scolaro che certo sa troppo poco della lezione, che cosa direbbero le donne più “far out” del mondo, le più “addio, addio”, quelle donne alte e magre che si appoggiano sui lunghi bastoni bianchi tesi verso il cielo africano, quelle che si coprono il capo con immensi capelli – nuvole bianche, di garza – quelle che si dipingono le guance con puntini azzurri come segni di Dio, quelle che portano collane sul petto e braccialetti giù per le braccia come cascate di sangue d’amore, le donne-signore, sorridenti, dei nomadi Bororò delle savane del Sole a sud del Sahara.

Probabilmente non farebbero niente altro che sorridermi, per dire che va tutto bene.

La savana non ha confini: ci stiamo tutti.

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