“A questo livello, una collezione partecipa all'elaborazione dell'arte come istituzione sociale quanto la critica. Che la collezione sia privata, come questa, raccolta in una villa varesina, è del tutto in armonia con il fatto che di pubblico, almeno qui da noi, non c'è che il vuoto”. Queste parole di Tommaso Trini sarebbero sufficienti a tracciare un ritratto della Collezione Panza nelle sue origini e nel contesto culturale che le circondava. Giuseppe Panza di Biumo era “colui che comprò una ventina di Rauschenberg in base soltanto ad alcune foto, quando in Europa nessuno li aveva ancora capiti”, e questo “quando” significa il 1962. La collezione sarebbe diventata un riferimento internazionale in breve tempo: Morris, Flavin, Rothko, termometro del contemporaneo e in seguito monumento di una storia ancora in corso, come Panza ci avrebbe raccontato nel marzo del 1993 (Domus 747). Ma Domus aveva già raccolto e condiviso la sua vicenda anni prima, molto più vicino a quelle origini: era il gennaio del 1968, e il numero era il 458.
Alle origini di Villa Panza, dall’archivio Domus
La Collezione Panza di Biumo è un riferimento per l’arte moderna e contemporanea, ma alle sue radici sta un’intuizione del fondatore, che tra gli anni ‘50 e ‘60 aveva saputo vedere gli sviluppi della storia futura. Domus raccontava quest’intuizione nel 1968.
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- Tommaso Trini
- 11 ottobre 2023
Un diario segreto di quadri celebri: la collezione Panza di Biumo
Le grigie strutture di Bob Morris si sono moltiplicate e occupano ormai un posto preminente. Anche le composizioni fluorescenti di Dan Flavin hanno raggiunto la quota di una posizione indiscutibile. Nella collezione Panza di Biumo, le opere entrano sempre a gruppi, ogni artista rappresentato da una sua costellazione, ogni opera individuata attentamente fra le altre. Morris e Flavin, le ultimissime acquisizioni, appartengono ormai alla storia di questa collezione, che è poi una visione particolare, un attivo strumento della storia dell’arte d’oggi. Queste due opere vi stanno ad indicare la migliore scelta possibile negli ultimi due anni. Una scelta ancora rischiosa, e tuttavia massiccia e ostentata. Certi critici, che pure spendono solo parole e possono cambiarle quando vogliono, non l’hanno mai fatta. A questo livello, una collezione partecipa all’elaborazione dell’arte come istituzione sociale quanto la critica. Che la collezione sia privata, come questa, raccolta in una villa varesina, è del tutto in armonia con il fatto che di pubblico, almeno qui da noi, non c’è che il vuoto.
Colui che comprò una ventina di Rauschenberg in base soltanto ad alcune foto, quando in Europa nessuno li aveva ancora capiti: così mi dissero del Conte Panza di Biumo, prima ancora che a Venezia nel ‘64 trionfasse l’artista americano. Nel ‘61-62 altri in Italia avevano visto quei “combine-paintings” ma se li erano lasciati sfuggire. Nessuno poteva prevedere che di lì a poco si sarebbero rivelati come la cerniera tra due epoche. Di quegli assemblages, che venivano continuamente ridefiniti come cultura del rifiuto o neodada o proto-pop, si riempiva intanto una sala della villa di Biumo. L’opera di Robert Rauschenberg è senza dubbio uno dei pilastri della collezione; rispetto agli altri, rappresentati dai numerosi Kline e Rothko, stupende acquisizioni di opere che hanno segnato un largo periodo del decennio scorso, il pilastro Rauschenberg ha però la qualità di un’intuizione tempestiva, di una scelta che ha colto il meglio nel mezzo della crisi.
Le opere datano dal ‘54 e giungono fino al ‘59. Comprendono in pratica tutte le tappe più significative prima del periodo delle serigrafie. Il conte Panza aveva in precedenza articolata la sua collezione, iniziata verso la metà degli anni ‘50, attorno a due grandi nomi: Franz Kline e Mark Rothko. Artisti che però l’Europa stava appena scoprendo, quando nel ‘56 il conte Panza comprò i primi quadri di Kline, datati attorno a quel periodo, e più tardi le grandi tele di Rothko, che vanno dal ‘54 al ‘58. Alcuni “Otages” di Fautrier entravano intanto in collezione insieme con poche ma splendide “sabbie” di Tapies, ‘57. Una sensibilità rabdomantica affermava il gusto della scoperta, l’esigenza di salire alle sorgenti delle grandi esperienze creative, ovunque si trovassero. Ciò avvenne puntualmente con la pop art.
Un viaggio negli Stati Uniti nel ‘62 e la conseguente familiarità con Leo Castelli e gli artisti della sua galleria diedero al conte Panza la misura di un fenomeno che aveva già creato alcuni capolavori, sconosciuti in Italia. Panza li individuò negli oggetti in gesso che Oldenburg cuoceva e vendeva nel suo “Store” (‘60-61), nelle vaste epopee del nuovo umanismo tecnologico di Rosenquist, e poi in alcuni quadri di Lichtenstein precedenti il periodo dei “fumetti”. Con la bellissima “Sposa” oldenburghiana, una satira feroce, e l’epica vitalità delle visioni di Rosenquist, la pop art è qui rappresentata nel suo lato più romantico ed europeo. La loro violenta affermazione umanistica è preferita all’ironia di Lichtenstein e all’indifferenza di Warhol. Dunque, una collezione che da dieci anni raccoglie l’arte più vicina alla realtà e le espressioni più individuali dello spirito.
Ma non è il caso di generalizzare e forzare le sue molteplici tensioni in una qualche unità: costante è soprattutto la ricerca di opere là dove si manifestano originali e compiute. Questa collezione, nota in Europa e negli States per la sua raccolta pop, non s’identifica affatto con la pop art. E non si può dire neppure che s’identifichi con un gusto univoco, con le tendenze di un luogo o di un momento storico. L’avventura possessiva del conte Panza è l’avventura stessa dell’arte contemporanea che si supera mentre si realizza. Privata, questa collezione lo è solo nel senso che rappresenta la passione quotidiana e la tensione di un uomo solo. A cui non basta, naturalmente, una profonda cultura artistica, né la documentazione capillare su quanto avviene, giorno per giorno, nella babele artistica internazionale. Né lo interessano i valori affermati e ormai accettati da tutti. E allora: ricettività sempre all’erta, senso di previsione, volontà di prevenire le mode e le imposizioni del mercato, e anche desiderio di promuovere le idee su cui si fondano le proprie scelte. Il conte Panza divide queste qualità con quei pochi critici, collezionisti, mercanti d’arte e direttori di museo, che fanno oggi la storia dell’arte avanzata.
Ha ascoltato qualche suggerimento, da parte di Pierre Restany e di John Cage, e qualche volta ha sbagliato: ognuno dei suoi celebri quadri appartiene anche al diario segreto di emozioni e percezioni continuamente rinnovate. Ma entra poi, come avviene adesso con le strutture primarie di Morris, che sono gli unici esemplari che si possano vedere in giro, a Varese o a San Marino, in un più vasto interesse pubblico. Di collezioni fatte in famiglia e in definitiva vuote come i nostri musei, ne abbiamo molte. La collezione Panza è una delle poche che abbia tempestivamente documentato presso di noi le punte scelte dell’attività internazionale.