Nel 1993 Zaha Hadid si trova nel punto di sintesi di un decennio dove la sua poetica e il suo linguaggio visivo, fatti di poderosi riferimenti alle avanguardie artistiche e all’opera di Kazimir Malevič ed El Lissitskij, avevano già plasmato l’immaginario di una generazione emergente di progettisti e teorici, a partire dall’ambiente dell’Architectural Association di Londra e da progetti come quello vincitore del concorso per la Peak Area di Hong Kong. La sua idea di progetto come filosofia era già forte all’inizio, come confermava parlando ad Alessandro Mendini, sul numero di Domus del 1983 che la ritraeva come cover star.
Dagli anni ‘90, questa grandissima carica di pensiero inizia il suo decollo verso la traduzione in architetture destinate a diventare simboli di un’epoca e soprattutto di un linguaggio, quello del decostruttivismo, come succederà anche con Coop Himmelb(l)au, Libeskind o Gehry. La commissione di Vitra per realizzare una caserma dei pompieri nel suo campus aziendale è la grande occasione per tradurre le linee dei disegni-quadri di Hadid in forme costruite, che subito avranno rilevanza nel dibattito architettonico a livello globale. L’edificio debutta su Domus nel settembre 1993, sul numero 752.
Zaha Hadid, Fire Station, Weil am Rhein
Pietre miliari della storia dell’architettura sono spesso edifici molto piccoli. Ciò che in passato hanno rappresentato la tomba di Teodorico a Ravenna per i futuristi italiani, il padiglione giapponese di Katsura per i protomoderni o la torre Einstein a Potsdam per l’Espressionismo si potrebbe dire oggi a proposito di una piccola nuova costruzione a Weil am Rhein per la languente avanguardia architettonica della fine del XX secolo. A dire il vero, si tratta semplicemente della stazione dei vigili del fuoco di una fabbrica di mobili nel Baden.
La stessa progettista Zaha M. Hadid è stata finora più che altro una tigre di carta. La Hadid deve infatti la sua fama a sistemazioni di interni e a progetti immaginari intergalattici, con i quali ha fatto girare la testa a studenti di architettura di tutto il mondo. Con la costruzione del suo primo edificio può dirsi finito il periodo dell’ansiosa attesa creatasi intorno all’isolata élite architettonica decostruttivista. È quasi impossibile trovare le parole adeguate per descrivere questo edificio aziendale per i 24 vigili del fuoco della fabbrica di mobili Vitra: è una rivelazione, un momento di luce dopo le tenebre della nostalgia.
L’edificio non “parla” e neppure rappresenta alcunché. Lo si potrebbe definire uno Starfighter o un motoscafo, una costruzione a ponte che sta crollando o un’astronave che sta esplodendo. La sua articolazione discontinua che si basa sul reciproco incastro di pilastri incassati e solette di copertura è sufficientemente spettacolare per poter desistere da immaginifiche analogie. A Zaha Hadid è riuscito ciò che oggi il coreografo William Forsythe o l’artista Laurie Anderson perseguono in modo analogo: la capacità di aprirsi a forze elementari svincolate da immagini e da contenuti, la capacità di depurare la rappresentazione da tutte le scorie della semantica.
L’edificio ricorda il movimento pietrificato delle ali di un’aquila che caratterizza il terminal dell’aeroporto di New York, opera di Saarinen, la fluida continuità spaziale di Frank Lloyd Wright, di Gerrit Rietveld o di Mies van der Rohe. Ma questi architetti moderni radicali hanno creato sempre e soltanto lastre murarie che scorrevano le une davanti alle altre in modo indifferente, e che si toccavano soltanto casualmente durante il loro percorso da nessun luogo all’infinito. Ancora una volta, Zaha Hadid ha affinato queste tendenze alla dissoluzione portandole con precisione millimetrica fino al punto archimedico del massimo spiegamento di forze.
Chi si accosta all’edificio, che presenta un’altezza di due piani ed è posto sul retro della fabbrica, prova una sensazione analoga a quella suscitata dalla scena iniziale del film di Hitchcock Vertigo, dove il protagonista James Stewart compare nel bel mezzo di una caduta libera, quasi fosse irrigidito in un blocco di ghiaccio, grazie all’uso di una cinepresa che ora arretra ora avanza zoomando l’azione. L’edificio si dispiega alla vista e, nello stesso tempo, si ritrae. Al di sopra della rimessa dei veicoli svetta, come la punta di un ago, un tetto a sbalzo lungo trenta metri che, successivamente, si trasforma nella trave portante a sostegno del piano superiore e, sul retro, in un movimentato tettoterrazzo.
Al di sotto si sviluppano a raggiera i locali di lavoro e di sosta che non vengono a creare né un volume interno chiuso né un corpo esterno compatto, bensì risultano liberati, quasi fossero tagliati con la lama di un coltello, dalla rigidità spaziale della geometria euclidea. Ognuna delle movimentate superfici, in parte ascendenti e ripiegate su se stesse in parte decrescenti e convesse, connette un intero fascio di direzioni. La prospettiva centrale, che assume come fuoco il soggetto, appare scardinata; lo spazio sviluppa una propria vita autonoma.
Questo “mobíle” architettonico pietrificato, mette in atto sfalsamenti a tal punto sottili e precisi che si può tranquillamente dimenticare l’estetica-sciangai presente in altri architetti decostruttivisti. Non si tratta neppure più della poetica confusione insita nel Merzbau di Schwitters o nell’architettura fantastica di Scharoun, e nemmeno della drastica eliminazione della libera forma naturale e della rigorosa forma artistica. L’edificio non è né una forma casuale organico-espressiva né una sofisticheria di tipo matematico, bensì è il violento colpo, sferrato in modo gelido e, nello stesso tempo, crepitante, da un’appassionata intellettuale incendiaria. Zaha Hadid ha riscattato la sua pretesa, che precedentemente è stata spesso oggetto di derisione, di realizzare le sperimentazioni spaziali degli “arkhitektoniki” di Malevič o dei “Prouni” di E1 Lissitskij.
Non restituisce ciò che vede in un oggetto, bensì ciò che di esso conosce. Questa progettista si nutre delle stesse forze di astrazione che in passato hanno ispirato i pittori cinesi, i quali ampliavano indefinitamente le loro vedute di paesaggi a volo d’uccello con doppi punti di fuga prospettica. Il suo atteggiamento progettuale è più ascetico di quello degli architetti moderni. Trasparenza, liberazione e, in definitiva, estetica igienista: di tutte queste leggende assunte ad autogiustificazione dagli architetti moderni Zaha Hadid non ne vuole più sapere. La loro sublime pretesa di dare a ogni epoca l’arte dello spazio più adeguata, al fine di creare o uomini nuovi o macchine intelligenti o società migliori, si è così incredibilmente lasciata aggiogare al carro della produzione industriale dei consumi e della funzionalità gestionale, al punto che questa stessa modernità è diventata un’arte di propaganda affermata.
Zaha Hadid ricorre a questa grande architettura fantastica del passato distillandone corpi astrali mai visti prima. Nel loro mutismo, ad un tempo monumentale e sottile come la filigrana, essi suscitano un altissimo livello di eccitazione estetica. Da un centinaio di metri cubi di calcestruzzo la progettista è così riuscita a creare uno studio spaziale improntato all’arte povera che misura circa 800 mq, con costi di costruzione che ammontano soltanto a 2,6 milioni di marchi. Tecnica, scienza e arte si integrano a creare una sconosciuta poesia della terribile bellezza del XX secolo. Una simile architettura a rischio non nasce soltanto dall’indomabile linguaggio gestuale della sua autrice. La costruzione riflette altrettanto bene sia la topografia del paesaggio collinoso del Baden che il disgregato contesto di una periferia industriale.
Ponendosi come sintesi di un’architettura unica e di elementi urbanistici, l’edificio accoglie direttamente al suo interno gli aspetti più intrinsecamente legati alla città. Eppure se ne comprende la composizione spaziale tesa fino alla lacerazione anche senza conoscere i nessi e i riferimenti da cui deriva. L’equilibrio interno che intercorre tra finestre a nastro incurvate, sequenze spaziali sempre più raccorciate e aggetti a guisa di proiettile è quasi perfetto. Tuttavia al piano superiore, nel punto in cui le ali orizzontali e verticali si incontrano nel loro centro di gravitazione, l’architetto perfidamente fa sì che si spalanchi una cavità triangolare nel pavimento. Il banale deposito di pompe antincendio evidenzia i motivi per cui l’architettura non può accontentarsi né dell’allestimento di scatole decorate né dell’esorcismo della purezza di “spazio” e “luce”, se viene trascurato il tempo.
Qui si tratta invece di un’architettura della velocità. Essa crea un illuminante vuoto circondato da parti edificate che si pone come superficie di proiezione spirituale, una mola sfavillante per l’affinamento dei sensi. Nel passato, i migliori progetti d’avanguardia erano destinati a ville di miliardari. L’avanguardia di oggi – Venturi, Koolhaas, Eisenman, Hadid – si è meritata i pieni onori con la costruzione di stazioni per i vigili del fuoco. Questo “pezzo unico” architettonico resterà saldo soltanto se non sarà logorato in banali riproduzioni in “stile”. Nonostante questo pericolo, esso emana quel l’incontenibile ottimismo di cui abbiamo bisogno per tenere testa alle provocazioni talvolta avvilenti talvolta grandiose dell’attuale società a rischio, anche se si tratta soltanto di spegnere l’incendio nel deposito del legname di una fabbrica di mobili.